Magnolia, Crash, Lantana, La sicurezza degli oggetti, Syriana e naturalmente il prototipo America oggi di Altman: non si contano, negli ultimi anni, i film che hanno utilizzato la tecnica narrativa degli short cuts per tentare un affresco collettivo, nella speranza che la somma di tante vite particolari fornisca un quadro d’insieme e nello stesso tempo restituisca l’isolamento, il senso di separatezza e di solitudine che permea le vite in società come la nostra. Ė una tecnica che ben si adatta alla rappresentazione della società americana e infatti è lì che è stata inventata da Carver in letteratura, e poi declinata nel cinema dagli autori dei film suddetti.
Francesca Comencini, che ha scritto A casa nostra insieme a Franco Bernini, appresa diligentemente la lezione, la usa per rappresentare Milano, non a caso la più “capitalista” delle nostre città, e dichiara di aver voluto fare un film sul denaro… Purtroppo questa tecnica comporta alcuni rischi e la nostra figlia d’arte, già autrice dei migliori Mobbing e Carlo Giuliani, ragazzo non sembra averli evitati. Il rischio principale è quello di realizzare un’opera ideologica, di partire da una tesi precostituita e magari anche piuttosto risaputa (il denaro ci domina e ci rende tutti soli e infelici, in questo caso) e di inventare a tavolino una serie di storie, di singoli casi che semplicemente illustrano e confermano l’ipotesi di partenza. E purtroppo è proprio così che succede in A casa nostra dove ogni frammento di storia non fa che ribadire l’unico leitmotiv di fondo: il miraggio dell’arricchimento ci fa sacrificare una dopo l’altra le passioni, le inclinazioni, gli affetti, ovvero tutte le cose che contano veramente nella vita: così facendo tutti finiscono per condurre una vita molto lontana da quella che desideravano, diventano infelici e producono infelicità in chi sta loro accanto. Qui non si discute la legittimità dell’assunto, ma la necessità di fare un film per dimostrare un semplice concetto.