Gira con un piccolo astuccio sempre in tasca, il colonnello von Stauffenberg interpretato da Tom Cruise. All’interno è riposto un occhio di vetro, che il protagonista di Operazione Valchiria ha bisogno di avere sempre con sé. Impresa non facile, considerando che gli manca tutta la mano destra e mezza mano sinistra, perse insieme all’occhio durante un attacco aereo sul fronte africano.
C’è molta, se non tutta, della caratterizzazione del personaggio nel suo rapporto con il corpo mutilato: quel saluto nazista gridato alzando una mano che non c’è più, il modo in cui porta la valigetta o carica la pistola con le sole tre dita rimaste. L’occhio di vetro nell’astuccio è una protesi rifiutata, con cui Cruise indugia per metà film. Ci gioca, lo soppesa, lo rimette in tasca. Preferisce ostentare la minacciosa – e orgogliosa – benda nera.
“Indossa” l’occhio solo quando deve avvicinarsi ai vertici del Reich, e a Hitler in persona, per sviluppare la sua cospirazione, facendolo diventare quindi una maschera di convenienza che cela le ferite. Che nasconde la marchiatura di un soldato consacrato alla patria, ma deluso da Hitler. Si può servire l’una oppure l’altro; non entrambi, dice Cruise. Quindi bisogna fermare il Führer.
La semplicità manichea a cui Singer e Cruise riducono la figura realmente esistita del colonnello e degli altri cospiratori è certamente grossolana. Imbarcandosi nel progetto i due non hanno fatto altro che dipingersi un bersaglio sulla schiena, preda facile per chiunque – storici, politici, critici – storca il naso di fronte all’idea di un superdivo hollywoodiano alle prese con la memoria tedesca. Oltre al solito valzer delle inesattezze storiche, Operazione Valchiria presenta sfumature inedite alla contesa mediatica, come il parallelo tra Scientology e gli ideali nazisti, la celebrazione di un eroe tipizzato e altre amenità.
La bizzarra ricchezza linguistica del film, poi, non aiuta: Cruise parla nel solito americano, gli altri ufficiali un impeccabile inglese a cui qualcuno aggiunge uno spiccato accento tedesco.
Accostando i paradossi concettuali alla storia realizzativa del film – un travaglio di problemi organizzativi, incidenti, date spostate, ripensamenti – il quadro si faceva davvero funesto, con tanto di presagi di sventura per la United Artists, resuscitata di recente dallo stesso Cruise.
Di fronte a un fallimento annunciato, ecco però il colpo di coda, tanto inaspettato da far pensare per un attimo che forse anche i cospiratori potrebbero farcela ad ammazzare Hitler: Operazione Valchiria funziona molto bene per quello che in realtà è, ovvero un thriller serrato. Bryan Singer è bravo a contrastare il peso di una Storia già scritta e avvita lo svolgersi del complotto in una suspense palpabile. Merito della rinnovata partnership con Christopher McQuarrie, vecchio compagno di scuola e di trionfi con I soliti sospetti. Non sfruttato da Singer durante questi anni di trasposizioni fumettistiche (ma c’è anche la sua mano nel problematico script di X-Men), lo sceneggiatore ripropone il suo evidente talento per l’escalation drammatica. In particolare, Singer e McQuarrie azzeccano la trovata “iterativa” del complotto, riuscendo a dar l’idea della solenne macchina del Reich in movimento, coinvolgendo al meglio tutti i personaggi e preparando lo spettatore, mediante la ripetizione della procedura, all’ultimo atto. Come se Singer inserisse i cambi di ritmo all’interno del frenetico ingranaggio nazista, poche brevi sequenze danno respiro alla vicenda altrimenti personale dei protagonisti (la sala delle comunicazioni, la mobilitazione della Riserva).
Una soluzione che rende giustizia all’ingegnoso piano di von Stauffenberg, il quale ideò un complesso rovesciamento del governo piuttosto che un mero assassinio. Singer può quindi impiegare i lati migliori del suo talento, quelli che coniugano l’attenzione al dettaglio con l’affilata messa in scena complessiva.
È giusto dimenticare gli ingombranti problemi che presiedono al film per godersi la dimensione drammatica? L’interrogativo è pertinente, ma che almeno ci sia una dimensione drammatica di cui godere è di certo un merito degli autori, i quali si avviavano a una sconfitta annunciata e sono invece riusciti a perdere solo ciò che non si poteva vincere, la partita con la Storia. E se la vista di Cruise in un ruolo palesemente non suo fa traballare, ci si può consolare con un cast solidissimo, in cui Branagh si ritaglia un’intensa parentesi e uno stuolo di ottimi interpreti riempie gli altri ruoli.