di Chiara Lenzi /Quando è stato pronunciato il titolo di Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda tra quelli che si poteva proiettare in una delle nostre serate di Schermaglie al Detour, c’è stato un piccolo tuffo al cuore, un ritorno al lontano 1999, anzi direi anche prima visti i tempi lunghi che ho impiegato, anno della mia tesi…

Risale alla fine degli anni ’90 il primo incontro, il colpo di fulmine con quei giovani cineasti francesi che negli anni ’60 ruppero col cinema classico, dando origine al cinema moderno, al cinema “d’autore”. Uscirono dagli studios per andare in strada a raccontare una città di cui cadere subito innamorata fu un attimo, Parigi.

Quel gruppo di giovani cineasti per la maggior parte venuti dalla critica cerca un rapporto più diretto con la realtà. Le riprese in esterni sono possibili grazie a pellicole più sensibili. Si gira in bianco e nero perché costa meno e perché permette di girare con meno luce di quella necessaria per il colore. Per la maggiore sensibilità della pellicola, si possono usare obiettivi speciali “a grande profondità di campo” che fanno   diventare espressiva la  scenografia come in   Cléo de 5   à 7.

L’idea di quei giovani cineasti di  un cinema che  fosse espressione della personalità e dell’esperienza del regista-autore, influenza inevitabilmente anche il rapporto con la città che non può che essere soggettivo e, quindi, riflettere il loro mondo. La città, l’ambiente è espressione soggettiva di chi guarda.

Agnès Varda è la cineasta donna del gruppo – di cui non si è mai sentita parte realmente, ma vicina per idea di cinema, non viene dalla critica, ma dalla fotografia: nei suoi film spazio e ambiente sono sempre molto importanti così come la ricerca visiva, della composizione armonica, pittorica dell’inquadratura tipica della fotografia.

Ed è con sguardo documentario che la Varda ci racconta di Cléo, giovane cantante che vive a Montparnasse, sulla rive Gauche, che, in sole  due ore (la durata reale del film), girovagando per   le strade del   quartiere, cresce spiritualmente come  donna, compiendo un   percorso che la  conduce da una   vita di gioia apparente, falsi affetti e pura esteriorità, ad una di viva felicità, sincera amicizia e profonda interiorità.

La regista, che osserva sempre il mondo e i suoi abitanti con intensa sensibilità, filma con precisione documentaria le due ore   più significative della   vita della giovane: Cléo è, infatti, nell’attesa di conoscere il risultato d’importanti analisi cliniche che le devono confermare la gravità dei suoi malesseri. Durante queste ore, la regista pedina la sua eroina minuto per minuto nei luoghi dove essa   si muove, costruendo quasi un documentario su una donna giovane, bella e famosa alle prese con la possibilità di una gravissima malattia che potrebbe portarla anche alla morte. Lo spettro   del male non  è, però, una condanna: infatti, esso obbligherà Cléo a guardare per la prima volta dentro di sé e attorno a sé, alla ricerca di se stessa e del senso della vita. Riappropriandosi di essa la giovane vince la paura della morte, della sofferenza, della bruttezza e dello sfacelo del corpo. Come in un Bildungsroman, la protagonista attua un percorso formativo che si snoda in un lasso di tempo di due ore e che ha come teatro le vie del quartiere in cui si muove.

La fine le è presagita, fin dalle prime battute del film, quando la ragazza, in preda alla paura, va da una cartomante alla ricerca di un responso positivo e di un impossibile conforto: escono le carte dell’appeso e della morte, chiaro presagio di un funesto avvenire, ma anche simbolo di un mutamento profondo. La bella cantante richiama l’immagine   di un baco che per   trovare nuova vita, deve morire, lasciare il  bozzolo e volare via trasformato in   farfalla. In queste due ore, infatti, avviene in lei un profondo cambiamento paragonabile alla morte. Cléo (diminutivo di Cléopatre, nome d’arte della ragazza) ritorna ad  essere Florence, la   giovane che aveva lasciato   la famiglia alla ricerca di libertà. Infatti,  libera dai clichés   della femme fatale, egoista, un po’ superficiale e un po’ cocotte, ritrova la sua vera identità di ragazza semplice, ingenua e innamorata. Trasformazione sottolineata da una svestizione: Clèo si spoglia della vestaglia bianca, trasparente con volant e piume e dei vestiti civettuoli e appariscenti dell’inizio del film per indossare un vestitino nero semplice. Si spoglia anche della parrucca dietro la quale sembrava nascondersi. Smettendo di specchiarsi compulsivamente in ogni superficie possibile, rassicurandosi che la propria bellezza e giovinezza non possono presagire una malattia, allarga lo sguardo a ciò che è attorno a lei diventando da oggetto di sguardi vero soggetto che guarda. Da quel momento, infatti, comincia a guardare la città e i suoi abitanti con un nuovo sguardo e ad accorgersi degli altri, come se scoprisse la loro esistenza solo allora. Eccola, quindi, camminare per le vie di Montparnasse, libera dai clichés della donna bella e famosa, finalmente mostrandosi   agli altri per   quella che è e abbandonando, così,  l’aspetto d’attrice in continua messa in scena.

La crescita di Cléo avviene per le strade del quartiere, sul   Boulevard Raspail e le vie limitrofe: il suo passeggiare può sembrare   un semplice camminare, uno dei tanti atti quotidiani della vita, ma il fantasma della morte da lei intravisto fa sì che guardi le cose in modo più pregnante e che viva i fatti caricandoli di un significato speciale.

Cléo e Montparnasse sono i due protagonisti del film : la   regista costruisce una sorta di documentario sul quartiere e sulla ragazza. La Varda, infatti, pedina la sua eroina senza nessuna ellissi. Per le vie del quartiere, negli spostamenti in taxi e in autobus   segue il vero   percorso nella sua   durata temporale e   nella sua dimensione geometrica e topografica. Tutto   appare ripreso con   occhio oggettivo (prenderemo come significato di «oggettivo» quello kantiano secondo cui è oggettivo qualcosa che è riconosciuto da tutti gli uomini, in opposizione a ciò che è percepito dal soggetto). All’uso di piani fissi, ampi, tipici di una ripresa obiettiva si alternano movimenti di macchina ricercati, chiaramente indice di uno sguardo soggettivo.  Abbiamo, infatti, un sovrapporsi e un influenzarsi degli sguardi di Agnès che riprende Cléo e il suo quartiere e di Cléo che guarda se stessa e il mondo che la circonda. Nel gioco di sguardi tra la regista e la sua eroina, l’occhio della protagonista sembra a volte sovrapporsi e confondersi con quello della regista stessa che inserisce nella finzione   della narrazione alcuni   momenti di documentario.

Agnès Varda afferma, infatti, in un’intervista: “Sono al tempo   stesso meravigliata e   attratta sia dalla   finzione sia dal   documentario. Non smetto di passare dal reale all’immaginario, e dall’immaginario al reale, io sono   nei due. […]   In generale, all’interno   di ogni finzione,   giro un documentario che mi rassicuri”.

Uno dei momenti in cui è chiara questa commistione col documentario è quando   Cléo accompagna l’amica   Dorotée alla stazione   di Montparnasse per ritirare un pacco e rimane in macchina ad aspettare l’amica. Questo è pretesto per una breve  sequenza-documentaria sul traffico   umano della stazione, sempre affollata di arrivi e partenze. Oppure la sequenza all’interno del caffè Le Dôme, situato sul carrefour Raspail (incrocio tra il Boulevard Raspail e il   Boulevard Montparnasse): gli   avventori del caffè   sono guardati in   soggettiva da Cléo, ma   sembra essere la stessa Agnès   Varda a scrutare   le persone in   un curioso reportage. La sequenza inizia con la mdp posta all’interno del locale a riprendere “in oggettiva” Cléo che attraversa la strada ed apre la porta. Continua, con la mdp che riprende “in soggettiva” i numerosi avventori e i loro svariati discorsi. All’interno di questa sequenza, c’è   un’alternanza tra inquadrature “oggettive” di   Cléo, osservata mentre cammina   tra i tavoli del locale   e mette una   sua canzone al   juke-box, e “soggettive” di   lei che guarda   la folla variopinta   del caffè. La   ragazza indossa un paio di occhiali da sole per mimetizzarsi meglio e per osservare indisturbata gli altri. La mdp si muove a mano in avanti come ad esplorare l’ambiente con occhio curioso. Ci sono giovani, anziani, personaggi bizzarri e seri intellettuali. Tra la folla così varia del   Caffè sembra quasi   d’intravedere la figura   di Simone de   Beauvoir che frequentava questo famoso locale già a partire dagli anni ’30, quando professoressa di liceo veniva qui a ricercare tranquillità e ispirazione per scrivere e lavorare. Anche Cléo sembra ricercare nella folla del caffè, conforto e sicurezza. Il Dôme è stato ed è un   importante punto di   ritrovo di artisti,   filosofi, intellettuali e   gente di spettacolo. All’inizio del film, la nostra eroina aveva già fatto una sosta in un caffè, in Rue de Rivoli, ma il suo sguardo non si era soffermato su nulla perché era alla sola ricerca di Angèle   che l’aspettava. Là l’interno del locale e i suoi avventori apparivano sfuocati e servivano solamente da sfondo al primissimo piano di Cléo, ripresa mentre si aggirava per   i tavoli alla   ricerca di qualcuno   o qualcosa con uno   sguardo completamente indifferente verso le altre persone presenti.

Seguendo Cléo   per le strade di Montparnasse, la Varda costruisce,   quindi, anche una sorta di   documentario sul quartiere   dove vivrà per   anni: le riprese   sono tutte scrupolosamente in   ambienti reali, quasi eclusivamente in esterni   e la topografia è rispettata. C’è un unico vero interno, quello della casa di Cléo: il nido in cui   lei trova rifugio   e protezione. Gli   interni dei bar sono in effetti degli   interni esterni a causa delle grandi vetrine con cui interagiscono con la città.

Le riprese del quartiere riflettono  lo sguardo di   Cléo sulla realtà,  quindi, prima del   radicale cambiamento che avviene in lei, la città fa da sfondo, spesso in immagine sfuocata. Essa diventa visibile solo nel momento in cui è Cléo a scoprirla, a soffermarsi sui particolari, ad aver voglia di conoscere zone nuove, come il parco di Montsouris di cui le parla l’amica Dorotée. Prima del cambiamento Cléo è indifferente allo spazio dove si muove, lei sola domina la scena perché è lei guarda solo se stessa. La città appare disseminata di   simboli di morte   o che tali sono interpretati da lei: il   negozio “Rivoli Deuil” (Rivoli   lutto) davanti cui   passa con Angèle, le   lugubri maschere africane che Cléo vede per due volte dal taxi esposte in un negozio e che le mettono tristezza e angoscia. La realtà   che entra nell’abitacolo del taxi attraverso   la radio parla   di morte e malattia: le violente manifestazioni contro la guerra d’Algeria e l’operazione chirurgica di E. Piaf. La città   appare agli occhi   di Cléo indifferente e lontana. È, d’altronde, lei stessa lontana   e indifferente alla   città che è   specchio del suo   stato d’animo. Dominata dalla   paura, la ragazza   pare vedere solo  segni di morte   o tristi presagi, perché quando si è dominati da un pensiero questo regola il nostro sguardo, facendoci vedere solo ciò che vi è legato.

Dal momento in cui   Cléo cambia il   suo modo di   guardare la realtà,   la città diventa co-protagonista della narrazione. La   cantante, come la   Varda, è interessata   più alle persone che incontra che all’urbanistica del quartiere. Infatti, secondo quanto pensa la regista, la città è costituita dalle persone che vi abitano. La Varda parte dalla realtà per raccontare il suo immaginario: la realtà filmata è solo lo spunto di partenza per un discorso personale e a volte fantastico. Essa è animata da un’anima particolare che la regista coglie nei luoghi e nelle persone che li abitano.

Cléo è colpita e interessata da chi vive in quelle strade: Montparnasse è le persone che vi vivono. Il quartiere diventa ora co-protagonista: la ragazza, infatti, è ripresa dall’alto   mentre cammina a   passo veloce per   il Boulevard così   che la sua figura appaia immersa nella grandezza del viale e dei suoi alberi. Il boulevard sembra come un enorme palcoscenico in cui si esibiscono strani personaggi, come il mangiatore di rane e   un uomo che   si trapana il   braccio, apparentemente senza   dolore. Una folla variopinta, quasi fenomeno da   baraccone, dà spettacolo   per i passanti, concretizzando, così, le intenzioni del costruttore di questi spazi urbani, immaginati come   dei palcoscenici. Il   boulevard, opera di   Haussman, creato per   dare un volto grandioso e teatrale alla   città, è un   enorme palcoscenico verde   (gli alberi ne  sono l’elemento fondamentale) sul quale recitare  attraverso i caffè   e i negozi che vi si affacciano. Per Cléo, sempre più sola, la città diventa un luogo in cui ricercare affetto e amicizia. La città è ora un luogo da scoprire con nuova attenzione.

Lo spazio urbano così disseminato di segni, potrebbe far pensare a uno spazio simbolico; Agnès   Varda difende il   suo linguaggio definendolo   non simbolico. Il paesaggio è sempre guardato dalla regista con uno sguardo particolare: con l’occhio della donna incinta, in L’Opéra mouffe, con ironia in  Du côté de la Côte, con passione in La Pointe courte. La scrittura cinematografica di Agnès Varda è caratterizzata da un continuo va e vieni tra il mondo oggettivo e la sua soggettività, tra interiorità ed esteriorità comunicanti.

Con questo sguardo lucido, appassionato che fa battere il mondo al ritmo del proprio cuore, la Varda dà un’immagine di Parigi inedita. Claude Beylie, addirittura definisce   Cléo “il più bel   film che sia   mai stato girato   in e su Parigi, intendo: la Parigi che appartiene a tutti e in priorità alla passeggiatrice dalle cinque alle sette”. Caso ironico,  visto che la  Varda dichiara di   essere stata costretta  a girare a Parigi a causa del piccolo budget che aveva a disposizione e di non amare la città: “Questo   budget imponeva di   girare a Parigi,   con pochi personaggi.   Siccome io non amo Parigi, ho girato un soggetto non molto gaio. […] Ho girato Cléo per provare al produttore Beauregard che potevo girare un film con meno di cinquanta milioni, e mi è piaciuto molto girarlo.”

La Varda ha abitato   a lungo nel   XIV Arrodisement (Montparnasse, appunto) ed è particolarmente legata a questa zona di Parigi perché qui vi abitano tutti i suoi parenti di quattro generazioni e, infatti, dichiara: “Vado raramente in città, bisogna passare il fiume…” Anche la sala da montaggio è nella casa a fianco .

Il continuo rimando e intreccio di oggetto e soggetto, tipico della scrittura di Agnès Varda, è evidente   anche nel particolarissimo “tempo” impiegato nella narrazione di   Cléo. Dopo un   breve prologo iniziale,   esso è qui dominato da un’oggettività quasi documentaria. Infatti, il tempo narrativo coincide con la durata reale del   film sottolineata da   scritte che dividono il   film in capitoli   e che ne scandiscono lo scorrere come un orologio: per es., “Capitolo primo: Cléo dalle 17. 05 alle   17 .08”, “Capitolo secondo:   Angèle dalle 17. 08   alle 17.13”. Il tempo oggettivo,   sottolineato dalla presenza   di numerosi orologi collocati per strada o in casa di Cléo, contiene al suo interno un tempo soggettivo dato dal ritmo   proprio di ogni   sequenza che rispecchia   il tempo interiore   della donna. Al cinema è difficile rendere il tempo soggettivo dei personaggi e spesso per far ciò si dilata la durata reale della sequenza. La   Varda, rende invece il   tempo soggettivo senza alterare la durata reale   della sequenza che   se indicata dall’orologio di 5 minuti   è realmente di 5   minuti. Il tempo   interiore è dato,   così, dal ritmo   interno della sequenza. Per es. il tragitto in taxi da Rue de Rivoli al carrefour Vavin che, all’inizio della narrazione, conduce   Cléo a casa, dura esattamente   5 minuti e   40 secondi. Sembrano lunghissimi perché la ragazza ha fretta di trovarsi a casa. I primi minuti della sequenza passano abbastanza veloci, poi si ha l’impressione di non arrivare mai . Questo rispecchia la   noia che spesso   si prova in   taxi soprattutto quando   si è impazienti d’arrivare. Negli ultimi 2 minuti, il ritmo è lentissimo: la mdp è ferma all’interno della vettura, riprende la strada attraverso il parabrezza, il suo svolgersi, gli ostacoli che si incontrano e che rallentano la corsa… La mdp riprende in soggettiva: si vede la nuca della tassista e Cléo è seduta proprio dietro di lei. Così,   all’opposto, la sequenza   degli amici musicisti   a casa di Cléo dura   lo stesso tempo, 5   minuti e 40,   ma passa ad   una velocità strepitosa:   infatti, è un   momento piacevole per la protagonista che dimentica per poco il suo problema e le sue paure. La   velocità è data   sia dagli scherzi   tra i personaggi e dai   ritmi così diversi   delle canzoni suonate, sia dal ritmo accelerato della sequenza costruita infatti con numerosi stacchi e diversità di piani: piani larghi coi quali si riprende tutto il gruppo si alternano a primi piani dei tre amici. La mdp è in continuo movimento.

“La grande cosa che m’interessa, è di vedere e di fare che anche gli altri vedano, non solamente perché ciò dona dei   piaceri, è orribile   spesso ciò che   si vede, ma   mi sembra che sia una presa di contatto con le cose. Nei miei film, vorrei sempre dare a vedere profondamente. Non voglio mostrare, ma dare alle persone la voglia di vedere. È ciò che succede a Cléo, si mette a vedere la cose diversamente da come le avrebbe viste di solito   e in un modo che   la tocca. Questo   fa che comprendendo le persone   si comprendono meglio   i luoghi, comprendendo i luoghi si   comprendono meglio le persone”.

Un critico de   «Cahiers du Cinéma»,   Claude Beyle, l’ha   definita una “realista sensitiva”, espressione che sintetizza con efficacia il particolare rapporto tra Agnès Varda, i luoghi e la realtà. La regista, infatti, nei suoi film trasmette allo spettatore un amore speciale per gli ambienti e le cose, affidandosi alle sensazioni. Pensiamo allo straordinario documentario l’Opéra-Mouffe del   1958 di Agnés Varda, sul   mercato della Rue   Mouffetard. Il documentario diventa diario intimo della regista che è andata tutti   i giorni nella   via del mercato, munita   di una sedia pieghevole in   ferro che sistemava   nel mezzo della strada e su cui saliva: da lì osservava tutto filmando con la mdp leggermente in alto. La regista   in quel periodo   stava vivendo un   momento speciale della sua   vita, era incinta, quindi   osservava tutto con   uno sguardo particolare: il mercato diventa   lo specchio della vita. In quel luogo, infatti, il tempo sembra scorrere così come quello delle stagioni dell’esistenza, dalla fanciullezza alla vecchiaia: il nascituro è insieme al vecchio, un tempo anche lui bambino, la gioia si alterna al dolore, la salute alla malattia, la vita alla morte.

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