di Serena Soccio /Il caso spotlight ha illuminato per ambizione e corsa sfrenata alla notizia la bigottissima Boston dell’inchiesta conosciuta come Massachusetts Catholic sex abuse scandal. Il film ben fatto e dal ritmo serrato mostra i virtuosismi di un certo giornalismo di inchiesta, spesso complice di un sistema che critica e di cui si serve allo stesso tempo, a discapito della storia che vuole raccontare. Le vittime degli abusi sebben trattati con una cura che traspare sono tuttavia prese a servizio dal Boston Globe a cui più che altro interessa la velocità di uscita dello scoop e la competizione con altre testate. Ma se abbandoniamo i riflettori americani e forse un certo cinema edulcorato e rassicurante che non coinvolge responsabilmente lo spettatore ma lo lascia sprofondare pigro nella sua poltrona e coraggiosi ci inoltriamo in quell’oscurità che è parte integrante della luce, allora possiamo incontrare la dimensione sovversiva e tenebrosa di El Club di Pablo Larrain.
Un senso di inquietudine e scomodità pervade lo spettatore fin dai primi fotogrammi, reso da una fotografia livida e una ripresa trasfigurante che empatizza con noi e ci rende partecipi di una scottante omessa verità che riguarda tutti, nessuno escluso. Ci si sente quasi scrutati dagli attori in piano frontale, anche noi seduti fragili, impotenti ad espiare attorno a un tavolo apparecchiato dall’ossessione del rito, del mantra consolatorio, del gesto quotidiano. Sono un gruppo di ex sacerdoti e una suora estromessi dall’esercizio per essersi macchiati di crimini indicibili e sospesi al giudizio, almeno quello giuridico quello di cui ci racconta Larrain; poco sappiamo di loro se non che la chiesa per evitare lo scandalo li ha rinchiusi li, a La Boca, in Cile isolati dalla società ad espiare i loro peccati, forse. La residenza è una sorta di schizofrenico panopticon di protezione-esposizione rispetto all’esterno, un sorvegliare e isolare senza punire in cui si avvalora la logica della punizione e del sacrificio propria della chiesa. Conducono la loro vita nella rimozione più totale e nell’autoindulgenza arruolandosi in azioni ripetitive e assenza di dialogo. L’unica attività e contatto che hanno con l’esterno è allevare un levriero relegato a sua volta in una gabbia e sguinzagliato solo per potersi allenare e andare in gara.
Alfredo Castro (attore fedele di Larrain e visto ultimamente anche di Ti guardo in cui ricopre ancora una volta il ruolo in-espressivo di chi rinuncia al desiderio) porta il cane sulla spiaggia, nelle loro reciproche ore d’aria e vi si affeziona forse anche nell’impossibilità di farlo con l’umanità; lo fa correre ossessivamente in circolo attorno a sé, a inseguire una corda-ricompensa che non raggiungerà mai. Mi sembra simbolizzi attraverso l’animale la condizione estrema di “allenamento” a cui sarebbero sottoposti i religiosi (e non solo loro) in una sorta di performance di perfezione attraverso privazione e repressione del desiderio che non soddisfatto nella sua pulsione vitale diventa furia, frustrazione, alienazione. Un’ottica sacrificale di quell’economia della salvezza di cui l’istituzione chiesa è maestra.
Ma non c’è giudizio in Larrain nemmeno quando a scompigliare l’ordine omertoso tra gli ecclesiastici arriva lo psicologo gesuita che con fare inquisitorio cerca di indagare sul suicidio del nuovo prete arrivato. Il club non si lascia corrompere e mantiene la sua posizione calma e risoluta fino a quando irrompe sulla scena il fool, Sandokan. È un ex bambino violato diventato ormai adulto, marginalizzato dal vero sé stesso e dalla società che attraverso una litania dell’orrore subìto sgranerà davanti agli impuniti quel rosario di oscenità che ha accostato in maniera perversa e definitiva l’atto pedofilo al suo avvicinamento alla fede.
È vertigine il turpiloquio del ragazzo, è ad ogni parola una ferita inferta di denuncia alla bassezza umana, all’oltre ogni limite, una flagellazione vera a propria che scompagina i sensi in un misto di seduzione erotica e mistero. Sandokan pronuncia l’indicibile e ce lo risbatte in faccia con la stessa carica ipnotica di ciò che, senza tanta immaginazione, capiamo sia stato fatto a lui. È liberazione in parte del vero sé che discolpa che rende visibile la ferita che finalmente può essere detta, e in parte quindi accettata. Credo che sia molto potente questo passaggio del film perché rende almeno un po’ di sollievo alle vittime degli abusi che molto spesso non denunciano o non hanno il coraggio nemmeno di nominare ciò che hanno subito, relegandosi in un concorso di colpa. Larrain è bravo a togliersi dal dominio del giudizio e della reattività perché sa che una verità è sempre parziale e chi offende non è l’intero essere umano ma una parte lesa e traumatizzata che reagisce in modo coatto al trauma ricevuto a sua volta. Ci porta alle origini del male Il club quelle molto più antiche di noi, della violenza umana che entra nelle nostre storie, nelle nostre famiglie come un terribile inquinante facendoci agire come degli automi guidati da una memoria da cui noi stessi spesso vorremmo prendere le distanze.
Scatenerà le ire dei preti della casa, Sandokan, il pedofilo colpevole addirittura si sparerà un colpo, mentre gli altri aizzati diabolicamente dalla suora progetteranno la loro vendetta inanellando ancora una volta un circolo vizioso di morte e violenza.
Il Club rappresenta la schiavitù della produzione dei nostri pensieri e della memoria del passato, da cui l’umanità non ne esce viva se non impara a sviluppare una capacità equanime di auto-osservazione. E in questo il cinema a volte può aiutare invece che ad alimentare la maschera a poterla abbassare.
a volte scrivo male. succede quando il mio cuore batte più veloce delle mani sulla tastiera.
E comunque mi è venuto in mente (in tempi per altro di integrazione sessuale dei migranti) un altro particolare progressista e forse antipatriarcale di Larrain sempre attribuito a Castro in cui dice più o meno che l’amore tra persone dello stesso sesso è quello più puro, perché liberato dal confine strumentale della procreazione.
Grandissima recensione Serenìta! La fotografia sbiancata ossessiva nelle riprese ‘psicoterapiche’ in interni fa affondare i nostri occhi nelle nebbie del miserabile incomprensibile; le notturne ci lasciano smarriti come i personaggi che non cercano più nulla dentro o fuori di sè. E le orecchie di noi spettatori sono assediate dalle litanìe di Sandokan e i pensieri marciscono alla rappresentazione di tanta autoindulgente combriccola. Onore a Larrain (e a Castro), ancora una volta volta profeta (interprete) del banale squallore prevaricante di essere umano sopra essere umano. Splendida la figura e l’interpretazione della pseudosuora perpetuamente governante. Spotlight è serrato e bene scandito e recitato, sul diverso piano della denuncia, poco introspettiva ma altrettanto se non più inquietante nello scoperchiarie le connivenze e coperture e cardinalizie e prefettizia dottrinariofedecongregazionista (alla epoca, il futuro papaRatz).
Grazie Luca, e concordo sull’approfondimento che fai,..della suora non sono riuscita a parlare perché mi inquietava assai
A me è venuto da pensare a Bunuel, in particolare a Viridiana per la parabola finale di Sandokan, di un’ironia letale. Grandissimo film, secondo me.