La seconda edizione del Visioni Fuori Raccordo Film Festival, conclusasi pochi giorni fa a Roma in una sala gremita e attenta del Nuovo Cinema Aquila, quartiere Pigneto, conferma la tensione progettuale che già aveva sotteso la prima edizione localizzata a Corviale: aprire spazi sulle periferie offrendo sguardi e narrazioni per riflettere sul presente. Senza dimenticare il passato, che in certi casi non sembra tanto passare, rappresentato sempre più dalle forme preziose del materiale di repertorio proveniente dagli archivi pubblici e privati. In molti casi, pensiamo soprattutto al film documentario Non tacere di Fabio Grimaldi, premiato come migliore opera documentaria nella sezione “Periferie romane”, il ponte offerto dai vecchi filmati funziona come vera e propria epifania sull’oggi molto più delle tesi precostituite o dei pedinamenti neutri. Nei vecchi filmati di repertorio, presi dalla miniera d’argento che è l’Archivio del Movimento Operaio, vi rivediamo addirittura i protagonisti del documentario così come apparivano nel 1968 e, visto il tema sociale del film (la vicenda di Don Sardelli, sacerdote che sulle orme di Don Milani fondò nel 1968 la storica Scuola 725 in una delle baracche dell’acquedotto Felice alla periferia di Roma), l’intreccio tra le vicende dei singoli studenti di allora, oggi diventati operai, insegnanti e anche piccoli imprenditori edili –che riscatto! e, a sentire le loro parole, che cristallina coscienza di classe- e gli eventi collettivi (il degrado delle periferie, l’emarginazione, la democrazia, la scuola, i movimenti…) risulta tessere nella stessa trama l’individuale e il collettivo, il particolare e l’universale, il passato e il presente.
Ma oltre all’ottima selezione delle opere audiovisive mostrate, la vera sorpresa di questo festival è stata l’opportunità di poter vedere e ascoltare le opinioni e le motivazioni della Giuria (due le sezioni concorsuali e diversi i premi assegnati), “costretta” ad autorappresentarsi intellegibilmente verso gli spettatori attraverso dei video che, tutt’altro che corpi morti, si sono ritrovati a interagire con i visitatori lungo tutto il percorso di avvicinamento alla sala. Il Nuovo Cinema Aquila, sempre più un piccolo faro di iniziative originali e abbastanza glocali (nel senso “buono” di doppio dialogo con il territorio multietnico e con le istituzioni), con la sua architettura navale è sembrato, in questo senso, il posto ideale per spingere lo sguardo dentro e oltre i tanti oblò disseminati alle pareti: veri o virtuali che siano la possibilità d’indagine sul reale non viene meno. L’isola urbana del Pigneto, nonostante la nomea di quartiere alla moda, è accorsa a sostenere il progetto nella veste coriacea di zoccolo duro, chiedendosi, un po’ sottobanco, se anche le altre vecchie sale rionali -d’echi t(r)onfi come quella scrostata del “Cinema Impero” o coloniale come quella dell'”Avorio”, non a caso trasformatasi in cinema a luci rosse- poste tra i due crocevia, anche memoriali, costituiti da Largo Preneste e Piazza Malatesta, condivisi con il gemello quartiere Tor Pignattara, possano rinascere prima o poi a nuova vita. Non dimenticando, magari, di dare cittadinanza alle realtà multiculturali della zona attraverso una cogestione diretta delle nuove sale. Il Nuovo Cinema Aquila appartiene infatti al Comune di Roma, come ci ricorda con piglio vivace l’assessore Giulia Rodano intervenendo alla premiazione del Festival.
La “giuria trasparente”, dicevamo, ha di fatto realizzato un’idea di Ansano Giannarelli, che non a caso ne ha accettato con entusiasmo la presidenza. Giannarelli, documentarista e studioso, ritiene che un film sia la risultante di un processo produttivo, un processo che incorpora, cioè, “lavoro (intellettuale e manuale) e capitale (mezzi finanziari)” e che “trasforma materia prima, secondo leggi che governano il mondo fisico e procedure relative all’attività economica”, coinvolgendo in questo processo anche le opere più personali, persino i filmini familiari (oggi tornati ad avere grande attenzione tanto da riservargli una categoria nuova di conio: found footage, letteralmente “pellicola trovata”). La pubblicità dei lavori dei giurati, in questa prospettiva, consente l’emersione del processo intellettuale che sfocia nel giudizio critico, limitando allo stesso tempo le tanto diffuse derive autoreferenziali, e anche, perché no?, il distacco emotivo con i lettori di molti critici nostrani. Silvana Silvestri, Marzia Mete, Gianluca Arcopinto e Antonio Medici, superando le comprensibili riserve iniziali su una tale messa a nudo dei propri pensieri, hanno accettato la sfida con generosa curiosità.
La memoria suggerita dall’osservazione del presente per poter immaginare il futuro, dunque, e la consapevolezza che tutto, anche l’opinione più marginale e lo sguardo più improvvisato (il recupero “pubblico”, ripetiamo, dei super8 privati girati in famiglia) sia il frutto di un “processo” che sta nelle cose del mondo. Ecco allora che lo svelamento del processo che sostiene il prodotto finito, affinando l’indagine di chi guarda, dovrebbe in conclusione creare maggiore consapevolezza nello spettatore. Un graffio, insomma, sopra la levigata superficie delle normali, e spesso false, forme di visione e adattamento (sociale).
Il bel documentario Via Anelli di Marco Segato ci mostra il muro (triste simbolo novecentesco che non vuol saperne di scomparire) alzato a Padova dall’amministrazione comunale per isolare dalla città il Complesso Serenissima, abitato esclusivamente da immigrati. Il muro fa della comunità immediatamente un ghetto, in tal modo dando alimento continuo alla ferita della “separazione” e dell’”abbandono” di chi lo abita e alla loro rabbia contro una misura di sicurezza evidentemente ingiusta. Un affaccio a cavallo del muro con le mani già protese su uno dei pochi alberi non divelti dalla costruzione e tre palloni gettati dalla cima di un palazzo del condominio e subito palleggiati nel cortile ci appaiono, in questo panorama desolante, come delle piccole “resistenze umane”.
Roma intorno a Roma, documentario costituito da diversi capitoli girati da un gruppo di studenti di cinema (coordinati dai documentaristi Gianfranco Pannone e Mario Balsamo) nelle tante periferie di Roma, ci mostra un’umanità ferita che sopravvive e si agita tra pieghe cittadine non omologate e spazi autogestiti. Le storie “nascoste”, raccolte dai giovani autori a Corviale, Laurentino 38, Infernetto, la Valle dell’Aniene, raccontano di pastori neozelandesi accorsi a Roma in quanto unici tosatori di pecore rimasti nel globo, di cave sotterranee adibite a umide fungaie gestite da un italiano con l’aiuto di una comunità di braccianti indiani, di artisti che allestiscono mostre e performance nella campagna adiacente la città, delle contraddizioni della discarica di Malagrotta. Strane storie che lasciano l’amaro in bocca.
Il documentario Via Selmi 72 – Cinemastation, di Ettorre, Diciocia, Cacace, racc
onta invece la storia, oramai diventata leggenda, della videoteca cinefila di Ponte Mammolo, chiusa nel 2006 e gestita fino ad allora appassionatamente da Angelo in modo totalmente arbitrario e istrionico: gli avventori uscivano sempre con un film diverso da quello richiesto. Il film, oltre a divertire, mostra la nascita di una piccola comunità attorno a un progetto socio-culturale un po’ folle (e che per fortuna uscirà presto dall’oscurità avendo trovato nuovo riparo in un locale posto sempre a Via Selmi, ma qualche numero civico più in alto).
I film premiati, con le conseguenti “dovute” motivazioni, potete leggerli direttamente nelle righe scritte dai giurati.
PERIFERIE ITALIANE – MIGLIOR OPERA DOCUMENTARIA
Via San Dionigi, 93. Storia di un campo rom di Tonino Curagi e Anna Gorio. Per aver portato in primo piano il racconto della difficile quotidianità di un campo rom alla periferia di Milano, attraverso una narrazione filmica che va oltre la cronaca, lontana da stereotipi e da atteggiamenti pietistici con cui molto spesso una società che discrimina si autoassolve. D’indubbio valore morale il metodo di lavoro che attraverso interventi periodici della camera – rispettosa e al tempo stesso partecipe – nel corso di due anni e mezzo consente di seguire i momenti individuali e collettivi dell’esistenza di una comunità di cittadini sui quali pesa da sempre il pregiudizio e la paura verso i diversi.
PERIFERIE ITALIANE – MIGLIOR OPERA DI FICTION
Giganti di Fabio Mollo. Per aver saputo costruire un racconto ben calibrato ed efficace di un’educazione sentimentale, dove la periferia è tanto quella geografica di un paesino calabrese, quanto quella umana di chi ha il coraggio di prendere le distanze dai rapporti di sopraffazione e maschilismo.
PERIFERIE ROMANE – MIGLIOR OPERA DOCUMENTARIA
Non Tacere di Fabio Grimaldi. Per aver saputo rievocare con passione, vigore ed efficacia l’esperienza straordinaria di Don Sardelli e della Scuola 725, attualizzandone sia la carica etica, che quella politico-culturale. Il film, alternando materiali di repertorio di grande valore al sopralluogo che il creatore della scuola fa oggi nei luoghi dell’Acquedotto Felice, rivela la profondità del suo intervento, evidenziando l’importanza di una conoscenza legata alla realtà delle singole esperienze di vita. Esemplare il collegamento tra passato, presente e futuro, con la riaffermazione della necessità di proseguire una lotta contro una società che spesso ripresenta oggi situazioni simili a quelle di allora.
PERIFERIE ROMANE – MIGLIOR OPERA DI FICTION
Adil e Yusuf di Claudio Noce. Per aver saputo raccontare la difficile integrazione di due giovani fratelli somali in Italia attraverso un’efficace drammaturgia incentrata sulle diversità caratteriali dei due ragazzi con uno sviluppo non scontato delle singole vicende. La resa delle immagini è efficace nella sua concitazione e nella scelta dei campi, anche se con qualche ridondanza.
MENZIONE MEMORIA
Via Selmi, 72. Cinemastation di Anthony Ettorre, Mauro Diciocia e Giuseppe Cacace. Per aver compiuto un viaggio nella memoria cinematografica ed umana, dai toni prevalentemente nostalgici con la consapevolezza e la rassegnazione della fine di una stagione. A testimonianza di quando le piccole videoteche e i cineclub erano luoghi di aggregazione culturale e giovanile.
MENZIONE MIGRANTI
Iolandia di Carla Grippa, Stefano Lanini, Silvia Mucci e Simona Piras. Per aver saputo raccontare la migrazione intima e personale di una donna sarda costretta a lasciare il centro storico di Genova in cui ha abitato per tanti anni per stabilirsi in uno dei tanti palazzoni della periferia cittadina. Il vitalismo e l’umana accettazione da parte della protagonista delle sue vicissitudini diventano la testimonianza individuale e collettiva di uno sradicamento universale e il percorso compiuto dalla donna dal centro alla periferia assurge a metafora di un più profondo cammino esistenziale.