Nell’ultimo film di Arnaud Desplechin, autore che condivide inspiegabilmente con Assayas e Garrell il destino di non trovare una distribuzione italiana (come se i francesi non distribuissero Bellocchio e Moretti, per fare un esempio), eccoci di nuovo a confronto, dopo Rachel sta per sposarsi di Jonathan Demme, con una riunione di famiglia che rischia di trasformarsi in un’esplosiva resa dei conti.
Protagonista è una famiglia piena di veleni e di cose irrisolte, ma Racconto di Natale non è assolutamente un film-manifesto contro la famiglia, sul genere ad esempio di Festen. Tutti i personaggi hanno delle meschinità, sono deboli e imperfetti, ma sono anche teneri, degni d’amore, in poche parole umani. Ci sono molte sofferenze in questa famiglia, malattie, lutti non elaborati e risentimenti inesauribili, tuttavia il film non è una tragedia e un’aura di leggerezza e di umorismo permea il racconto e alla fine prevale su tutto lasciando una sensazione di “sacrilego” divertimento. Come è possibile? E’ possibile perché a questo banchetto natalizio c’è un grande assente: il Senso di colpa. Che invece la farebbe da padrone in un film italiano o anche americano (vedi Rachel sta per sposarsi dove la vita della protagonista ne è completamente annientata): i personaggi dell’universo di Desplechin, invece, accettano le loro cattiverie e manifestano tranquillamente i loro sentimenti meno edificanti proprio perché non sono affatto paralizzati dai sensi di colpa, né tantomeno fanno della coerenza una bandiera. E così può capitare che madre e figlio scherzino distesamente sul fatto di non volersi bene (e tuttavia al figlio negletto non viene neanche in mente di negare il suo midollo osseo alla madre che ne ha bisogno per curarsi la leucemia) o che la sorella maggiore curi le ferite dell’odiato fratello dopo che il suo stesso marito gli ha spaccato la faccia a suon di pugni… può accadere anche che l’altro fratello veda l’amatissima moglie (Chiara Mastroianni) condividere il letto con il cugino senza che per questo scatti una scenata di gelosia. Così Elisabeth (Anne Consigny) non si sente in colpa per la schizofrenia del figlio nonostante ne sia la probabile causa, né alcuno pensa di imputarglielo, così come nessuno pensa di accusare Junon (Catherine Deneuve) per aver amato i figli in modo così irrazionalmente disuguale.
Insomma, la vita in questa famiglia sembra fluire in tutta la sua contraddittoria complessità – Desplechin è allo stesso tempo tenero e spietato con le sue creature – senza che nessuna autorità si preoccupi mai di stabilire cos’è bene e cos’è male, di separare i buoni dai cattivi, e questo sicuramente può sconcertare qualcuno, ma permette a tutti di andare avanti, al di là delle lacerazioni e dei lutti. Racconto di Natale è anche un film dove molte cose rimangono segrete o poco chiare (una su tutte il motivo per il quale il fratello Henry-Mathieu Amalric – sia così detestato in famiglia), dove molti atti conservano intatta tutta la loro ambiguità: la bellissima scena del trapianto finale con il figlio che mostra alla madre le ferite che ha dovuto sopportare è una riconciliazione? O non è piuttosto una vendetta di Henry, finalmente indispensabile agli occhi di una madre così indifferente? Non sappiamo con esattezza, ma probabilmente è proprio questo il motivo della persistenza delle immagini del film di Desplechin nella memoria. C’è una scena da segnalare per la bellezza cinematografica e anche per il suo significato: l’operazione di trapianto, rappresentata come una danza in cui vediamo sacche di sangue passare di mano in mano come si trattasse di neonati da trattare con la massima cura, mentre Catherine Deneuve aspetta trepidante e mentre una musica sublime scandisce il ritmo dei movimenti chirurgici trasformandoli in altrettanti passi di danza: ecco, questo ci pare un vero colpo da maestro e anche in parte una citazione, non si può non pensare a Jacques Tati, o anche a certe scene di Effetto notte.
Tutto questo è anche un modo, caratteristico nel cinema francese, per sorvolare sulle sofferenze del corpo, per sublimarlo. La dimensione carnale, della passione, rimane oggetto di allusioni, di sottintesi, non si vede: dei segni fisici che lasciano le malattie, degli aspetti materiali del dolore si parla molto, ma non si sentono. E’ un cinema disincarnato, cerebrale, aereo: ciò che conta è lo spirito (l’esprit) non la carne, l’erotismo non il sesso. Al contrario del cinema italiano, dove il corpo è sempre protagonista, con tutta la pesantezza e la sensualità che ciò comporta. Forse perché oltralpe l’arte, la cultura, sono sempre state intese come strumenti per abbellire la vita, per mettere ordine laddove non ce n’è (“i film vanno dritti come treni, non sono come la vita” diceva Truffaut): non c’è il demone del “realismo”, della “rappresentazione della vita così com’è”, della “mortificazione della carne”, così cattolico, così del sud.
E questo nei film francesi è sempre vero, spesso anche a dispetto delle dichiarazioni d’intenti degli autori, che dichiarano spesso di mettere il corpo al centro delle loro attenzioni: lo dice Desplechin, lo afferma Assayas, lo diceva Truffaut, etc. etc.
Per questo un’operazione di trapianto di midollo si può trasformare in una danza, in un balletto, in una scena poetica e ritmata; per questo si può fare una riunione di famiglia in cui si trasformano le possibilità di sopravvivenza di Junon in mirabili formule matematiche; per questo, forse, una madre può dire al figlio che non l’ha mai amato e poi farsi quattro risate insieme a lui. Tutto questo ha del mostruoso? Folle? Per una cultura melodrammatica e visceralmente cattolica come la nostra forse sì, ma è anche incredibilmente liberatorio.
evviva la Francia! Film bellissimo e hai colto in pieno, chiarendomelo, il punto. Lo andiamo a rivedere?
Sì sì, perché no?