Possiamo considerare la solitudine e il patimento che ne deriva come una condizione di osservazione privilegiata per traguardare la complessità dell’esistenza? Ed è in grado di favorire l’intensificarsi del livello di empatia tra gli esseri umani, o finisce per renderli più cinici e indifferenti?
Questi interrogativi, innestandosi sulla questione universale della condizione sociale dei migranti, sembrano permeare il racconto morale di L’ospite inatteso – The Visitor, scritto e diretto con sensibilità poetica e coraggio civile da Tom McCarthy, già attore in Good Night & Good Luck, Syriana e Flags of Our Fathers tra gli altri, qui alla seconda regia.
Il protagonista Walter Vale – un Richard Jenkins col phisique du rôle dell’uomo qualunque e l’atarassia d’espressione, a metà tra Peter Sellers in Being There e il Bill Murray di Lost in Translation – è professore in una piccola università del Connecticut, vedovo di mezz’età la cui esistenza appare ormai procedere stancamente sui binari di una routine grigia e solitaria.
Nulla sembra davvero più distogliere Walter dalla profonda depressione in cui è precipitato, non un interesse, niente per cui valga la pena appassionarsi, e non fa eccezione la cupa ostinazione con cui si cimenta in improduttive lezioni di pianoforte, mosso unicamente dal lutto non elaborato per la scomparsa della moglie, lei sì pianista di talento.
Se nella vita privata è calma piatta, sul fronte lavorativo le cose non vanno meglio. Svogliato e demotivato nell’attività didattica, accampa come giustificazione alla propria indolenza, l’impegno assorbito dalle ricerche per un nuovo libro, che però non ha neanche iniziato a scrivere. Un’esistenza tragicamente ordinaria, si direbbe, infelice non più di tante altre, in cui lo scollamento tra un io-non-più-desiderante e la realtà esterna sembra trovare conferma nella banalità del quotidiano, nel senso di inadeguatezza dei rapporti umani, nella perdita di baricentro sociale.
Tutto cambia allorché Walter accetta malvolentieri di sostituire una collega a una conferenza a New York, dove possiede un appartamento che crede disabitato e che invece scopre essere stato affittato con l’inganno a una giovane coppia, il siriano Tarek e la senegalese Zainab. I due non cercano rogne e si preparano a lasciare l’abitazione ma, dopo un primo momento d’esitazione, l’argine che separa l’asociale professore dal mondo esterno, riparandolo dal flusso delle emozioni, va in frantumi.
Attraverso una delle eleganti ellissi di montaggio che compongono la struttura del film, intuiamo la decisione sofferta di Walter di offrire ospitalità ai ragazzi, in attesa che trovino una diversa sistemazione.
La vicenda prende in breve i toni della commedia, con il professore che sempre più appare disponibile a rimettersi in gioco, a riassaporare il gusto di una socievolezza non mediata dalle convenzioni, trascinato dalla vitalità dilagante della coppia. Sotto lo sguardo diffidente della ragazza, più refrattaria all’ibridazione culturale, Walter prende lezioni di Djembe da Tarek, affascinato dalla potenza istintiva dello strumento, e ne diventa amico. Per il contegnoso docente di economia, esperto in cooperazione con i paesi in via di sviluppo, è l’occasione per un approccio sensoriale ed emozionale, per un’acquisizione di sapere empirico di un mondo conosciuto fino a quel momento solo nei suoi astratti andamenti macroeconomici. Finalmente Walter può permettersi il diritto di allentare il nodo alla cravatta.
Ma mettersi in gioco comporta rischi e implica l’assunzione di responsabilità nei confronti di chi si ama. Quando Tarek, per il semplice fatto di essere stato trovato sprovvisto di permesso di soggiorno, viene arrestato e condotto in un centro di detenzione per immigrati clandestini nrl Queens, Walter è costretto ad aprire gli occhi e fare i conti con una realtà fatta di soprusi e arbitrio di cui la maggior parte dei suoi concittadini intuisce solo vagamente l’esistenza. Un massacro del diritto, nel sistema dell’immigrazione Usa, non molto differente da quello consumato costantemente all’interno della fortezza Europa. Il destino di Tarek è appeso a un filo, l’espulsione dietro l’angolo.
Il giovane detenuto dipende completamente da Walter, il quale non si sottrae. Al contrario. Depone in suo favore al comando di polizia. E’ l’unico che può fargli visita al centro di prigionia e portargli i messaggi di Zainab mentre incarica un avvocato di occuparsi del caso. Rimanda il ritorno nel Connecticut, disdicendo impegni di lavoro pur di rimanere vicino all’amico. Ospita nel suo appartamento Mouna, la madre del ragazzo, venuta a New York in cerca del figlio. E sarà proprio la comparsa imprevista della donna, un’intensa e affascinante Hiam Abbass (La sposa siriana, Munich, Il giardino di limoni), la condivisione dell’inquietudine per la sorte di Tarek, a consolidare il ritorno di Walter alla pienezza dell’esistenza e l’interruzione della quarantena affettiva, rendendo ancora più solida la sua determinazione a fare dono di se stesso agli altri.
L’ospite inatteso riesce efficacemente a tessere i fili di un discorso che da una prospettiva iper-soggettiva, dalla contemplazione di questo grado zero-assoluto della sofferenza individuale, arriva a toccare questioni politiche e filosofiche universali e temi sociali di portata storica. La prima parte del film riecheggia certo cinema francese, penso a L'Emploi du temps di Laurent Cantet o L’adversaire di Nicole Garcia, per la sua malinconica ritrattistica di un individuo appartenente alla classe media, socialmente realizzato all’apparenza, in cui lentamente si incrini la facoltà di adeguarsi a una realtà percepita come ostile e a un ruolo pubblico vissuto come mera costrizione. In questo senso il personaggio di Walter Vale è paradigmatico.
Il film è disseminato di segni indicatori del suo disagio. L’abito che indossa è l’impeccabile uniforme che rappresenta lo status di accademico, ma la sembianza è contraddetta dalla sua impasse professionale. L’immagine raffigurante il deserto, sul desktop del suo computer, oltre che presagire l’orizzonte degli eventi umani entro cui rimarrà coinvolto, riflette il vuoto e l’aridità della sua personalità in stallo, la desertificazione interiore che lo assedia.
Tutta la sceneggiatura peraltro, scrupolosamente attenta alla coerenza dei dettagli all’interno del progetto complessivo, si può leggere su diversi livelli. Il personale e il politico, il sociale e l’introspettivo, si compenetrano continuamente. Così la decisione del protagonista di dare ospitalità ai due giovani può essere letta, sia come il bisogno disperato di rapporti affettivi da parte di un individuo solo e sperduto, sia come metafora del senso di colpa di un bianco occidentale che si vuole far carico dei problemi del terzo mond
o. Il fatto poi che il professore sia un esperto in economia dello sviluppo non fa che confermare questo doppio livello di lettura: lungi dal portare reali benefici ai paesi per i quali sono destinati, questi interventi di cooperazione vanno spesso ad arricchire le organizzazioni stesse che li sponsorizzano. Walter Vale lo sa bene, e si accorgerà che il terzo mondo è molto più vicino di quanto si sarebbe aspettato. Basta uscire in strada per trovarlo nei gruppi improvvisati di percussionisti, tra le bancarelle di un mercato, nello sguardo altero di una donna ancora capace di scommettere sulle sue qualità umane, e sempre più spesso nei cubicoli di una prigione, sotto lo sguardo onnipresente di una telecamera di sorveglianza, senza privacy né dignità.