Lanciato lungo i binari di una ferrovia che collega tra di loro visioni, suoni e modalità di raccontare distanti ma in grado di incontrarsi con bella naturalezza, il rigenerato sguardo di Danny Boyle abbandona la cupezza delle ultime prove tra horror e fantascienza (28 giorni e Sunshine) per farsi penetrare e contaminare dai colori forti, accecanti e in alcuni casi lussuriosi, dell’India e della sua miriade di vitali controsensi.
Il primo di questi controsensi è presente nel titolo originale del romanzo di Vikas Swarup Slumdog Millionaire, che potremmo tradurre come il povero milionario, dove l’accostamento tra l’idea di povertà e di miseria(slum) e quello dell’aspirazione alla ricchezza più sfrenata d’importazione occidentale (la cornice del racconto è il quiz televisivo “Chi vuol esser millionario?”) è il segno di una varietà di toni ora accelerati ora dilatati e di argomenti che si prestano ad essere tirati fuori dalla storia e che Boyle e lo sceneggiatore Simon Beaufoy spingono senza aver paura di mettere troppa carne al fuoco. In questo caso la carne è data dai corpi e dai volti dei figli della strada, di quell’India che noi occidentali abbiamo conosciuto virata più realisticamente, ma sempre con un tocco di fantasia dalla Mira Nair di Saalam Bombay! e che qui si incontrano e si riconoscono tutti sul volto spaurito d’innocenza e risoluto d’ingenuità di Jamal, interpetato dal prodigioso Dev Patel, uno dei più credibili diciottenni visti al cinema. Il suo essere sospeso tra l’evocazione di un’infanzia rubata e l’indeterminatezza di un futuro affidato al caso e alla fortuna è lo specchio preciso di un’età di passaggio raramente colta con tanta precisione.
Intorno a questo appassionato giovane uomo, Boyle fa esplodere un mondo in cui si alternano, si susseguono o meglio si inseguono la vitalità e l’oscenità dell’infanzia libera, incontrollata e per questo esposta alla violenza e allo sfruttamento, un mondo che si fa adulto precocemente e introduce una nuova dimensione più cupa, dove è difficile rispondere alla minaccia della morte e della precarietà con uno sberleffo, una corsa a perdifiato, soprattutto quando si ha a che fare con la vera criminalità organizzata. Le immagini vivono della capacità di Boyle di saper articolare questi tre piani del racconto – la partecipazione di Jamal al Chi vuol essere milionario indiano, l’interrogatorio da parte della polizia che lo crede un truffatore e il passato incredibile del ragazzo che smentisce la frode e spiega il trionfo finale – e del loro rimandare a suggestioni provenienti dalla letteratura europea, come i grandi romanzi di formazione di Charles Dickens e perfino I Tre Moschettieri più volte citati, o dalla grande industria cinematografica di Bollywood, evocata da alcuni fotogrammi dei film del leggendario divo Amitabh Bachchan.
La cifra della fiaba realistica è ulteriormente marcata dalle luci della fotografia di Anthony Dod Mantle che dalle bidonville di lamiera e cartone fino alle zone più occidentalizzate di una Bombay/Mumbay magica e brutale al tempo stesso mantiene i toni sull’arancio, il giallo, il rosso: una scala cromatica elementare che ben corrisponde agli aspetti anche più turgidamente melò della vicenda. In questo Boyle che ha da sempre mantenuto un equilibrio tra la visionarietà della sua immaginazione e una capacità lucida, analitica del racconto ha trovato probabilmente una fatica maggiore ad abbandonarsi alla deriva romantiche di Jamal che partecipa al gioco non tanto per riscattarsi da un destino avverso o per una cupidigia di fama e di denaro, ma per ritrovare la bambina/ragazza/donna incontrata e amata nell’infanzia e poi perduta.
L’irrompere a tratti, in maniera quasi intermittente, della forza del sentimento amoroso che preserva dalla miserrima realtà circostante appare essere meno nelle corde dell’anarchico autore di Trainspotting, in quanto vincolato troppo da certe convenzioni del cinema melodrammatico bollywoodiano dove l’accumularsi delle sciagure dei personaggi incide sul coinvolgimento emotivo dello spettatore più che sull’alimentare le possibilità delle visioni di un regista. E il personaggio di Latika, la donna amata da Jamal, rimane appunto una visione e occupa lo spazio di un frammento dell’immagine dell’incantevole Freida Pinto, colto tra i vagoni del treno di Victoria Station, in mezzo alla vera gente dell’India. Un ulteriore contrasto che esprime il divario tra lo straordinario e il quotidiano, e la duplice natura del cinema – sicuramente quella del cinema di Danny Boyle – sospesa, volatile, magica e al tempo stesso materiale, fisica e razionale. Il volto di Latika riflesso nel sole è la pennellata di passione furiosa del melodramma cui si accosta, in una sorta di parallelismo riassuntivo di tutto un mondo e delle sue contraddizioni, il volto dell’anziana donna che bussa al finestrino della macchina del Jamal alle soglie della vittoria milionaria, augurandogli buona fortuna. Dentro quest’augurio è contenuta tutta la possibilità che una mdp possiede nell’accogliere il senso profondo di una realtà, di segnare il punto di arrivo di tutte le corse di Jamal e del fratello attraverso le insidie e le ostilità oltre i passaggi didattici o esplicative del racconto. C’è il superamento del volto del sogno cinematografico per fotografare il volto dei sogni di un popolo e sulle spalle del piccolo Jamal e del suo sogno d’amore viene caricata la speranza di andare oltre, di far coincidere, per l’attimo della durata di una risposta che si accende, il quotidiano e lo straordinario. Ci penserà poi l’immaginazione a farci sentire come se fossimo in un film di Amitabh Bachchan. La durata cinematografica di un’illusione.