Il futuro del cinema è già presente, non in modo chiaro e univoco, anzi. In realtà si tratta di un mutamento in corso oramai da decenni, dovuto per lo più ai molteplici modi con cui è possibile oggi consumare immagini (dalla televisione ai telefonini ad internet passando per i dvd) che testimoniano il venire meno della centralità della sala cinematografica. Incerto ancora è l’approdo, ma di sicuro è in atto una trasformazione radicale. Viviamo un “presente bifronte, in cui il vecchio convive col nuovo e si stenta a riconoscere una direzione di marcia sicura”, scrive Gabriele Pedullà in un imperdibile saggio intitolato In piena luce. I nuovi spettatori e il sistema delle arti, edito da Bompiani (278 pp.). Una situazione, quella attuale, che permette di guardare diversamente il luogo canonico dove in passato si andava a vedere un film. La sala perde ai nostri occhi la sua naturalezza, la cornice deputata alla visione acquista rilievo, il dispositivo si rivela sempre più come “una costruzione artificiale perfezionata nel corso del tempo”.

Quel rito a noi tutti caro di entrare in un sala cinematografica, di sederci in una poltrona, rimanere al buio in attesa che partano le immagini e rimanere fermi per l’intera durata della proiezione è frutto di una lunga elaborazione che favorisce “un preciso stile di visione e di ascolto”. La sala è infatti concepita apposta per rendere più intenso il coinvolgimento e impone una serie di vincoli fisici e sociali. Come scrive Kafka, citato nel libro, “il cinema costringe l’occhio a indossare un’uniforme”. Su questa strada, dovendo comparare gli altri dispositivi di visione, si pensi solo alla televisione, più che alla coppia “attento/distratto”, risulta più produttiva quella proposta dall’autore “libero/coatto”. E partendo da questa opposizione elementare Pedullà suddivide la storia degli audiovisivi in tre fasi. La prima è l’epoca del cine-varietà e della cine- fiera (dal 1895 al 1915 e oltre) in cui allo spettatore era richiesta un’attenzione parziale: insieme alla visione del film potevano esserci altre attività distraenti (mangiare, conversare…). La seconda corrisponde all’epoca d’oro del cinema (dal 1915 al 1975), quella del “cubo opaco” cioè il corrispettivo cinematografico della galleria d’arte contemporanea, quel “white cube” apparentemente neutro e in cui tutto è stato pensato per favorire l’apprezzamento delle opere. Allo stesso modo si è cercato di disciplinare rigorosamente le pratiche di visione del film attraverso l’architettura e un codice di comportamento, con un risultato: massima costrizione e massima concentrazione di fronte allo schermo. Terza fase: gli individual media, televisione in primis (dal 1975 ad oggi). Le nuove tecnologie hanno smesso di imporre un modello unico di fruizione degli audiovisivi e consentono, anzi incentivano, un atteggiamento distaccato da parte degli spettatori.  occhialini cinema

 

L’analisi mette in evidenza, tra l’altro, le conseguenze sulla fattura dei film influenzati “dalla crescente necessità di realizzare opere anfibie, capaci sin dall’inizio di farsi strada in sala e fuori dalla sala”. I cambiamenti sono avvenuti per lo più negli ultimi trent’anni  e possono essere raggruppati in sei punti: il montaggio sempre più rapido; il ricorso agli obiettivi a focali lunghe; la posizione ravvicinata della cinepresa durante i dialoghi; l’estrema mobilità della macchina da presa; l’uso delle tecnologie digitali; la trasformazione delle sceneggiature (più che un graduale sviluppo della storia, specie nei film di cassetta, un gran numero di sequenze di grande impatto visivo ma debolmente collegate fra loro). Tutti procedimenti tesi a vincere la competizione con le differenti forme di audiovisivi nel tentativo di “bloccare” lo spettatore, non farlo andare con gli occhi altrove. Così com’era successo col “cubo opaco” , l’affermarsi di un nuovo modello di spettatore dominante ha innescato la trasformazione dello stile del film. Sinora la rincorsa del pubblico ha però condotto, specie con i mezzi della tecnologia,  ad “una crescente banalizzazione stilistica”. Dopotutto è anche vero che la condizione del cinema è instabile, legata all’incessante progredire dei mezzi tecnici. Basti ricordare l’arrivo del sonoro che spiazzò autori che col muto avevano raggiunto vertici insuperabili. I registi sono costretti oggi ad inseguire il pubblico e “autori come Wong Kar Wai o Park Chan Wook lasciano già intuire che un grande cinema costruito sull’intensificazione stilistica (ralenti, uso ossessivo delle musiche, riprese di scorcio, montaggio ellittico, figure della ridondanza…) è possibile” .

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