Come si sa, quest’anno ben due film sugli irriducibili terroristi della Baader Meinhof sono approdati al Festival di Roma. Un soggetto relativamente nuovo per il grande pubblico, che magari non ricorda i film di Rainer Werner Fassbinder o di Edgar Reitz. Si tratta di due opere molto diverse, che si compensano a vicenda, interessanti ma in qualche modo anche (inevitabilmente dato il soggetto?) deludenti: Der Baader Meinhof Komplex di Uli Edel, infatti, è un’adrenalinica cavalcata antologica sulle “gesta” della famigerata banda del terrore, è un film d’azione all’americana che mette in fila una dopo l’altra le rapine, i sequestri, gli scontri con la polizia, le catture, le uccisioni, i processi, senza mai soffermarsi su niente in particolare e lasciando alla fine lo spettatore come un pugile suonato; Schattenwelt, di Connie Walther, è invece una riflessione sofferta, a posteriori, sulle conseguenze della violenza, sulle ombre lunghe (questa la traduzione letterale di Schattenwelt) che lascia nelle anime di chi ne è stato toccato, come vittima ma anche come carnefice. Un tratto che accomuna le due pellicole però c’è, ed è l’assoluta mancanza di una ricerca delle cause, sociali o politiche, di questa violenza. Sono due film che descrivono i fatti, le azioni dei terroristi, nel caso di Schattenwelt anche le ferite interiori e i traumi psicologici, ma senza cercare di inserirli in un contesto più ampio, di farne capire le ragioni storiche. I protagonisti, in entrambi i casi, sono presentati come maschere della ferocia, della rabbia, del risentimento, che agiscono in preda a impulsi non controllabili che li spingono a odiare, a uccidere, a sentirsi irriducibilmente contro. La loro rivolta sembra scaturire dal nulla, anche se nel caso di Schattenwelt bisogna dire che c’è almeno una prospettiva psicologica. Ma procediamo con ordine.
Nel film di Uli Edel, questa rappresentazione dei protagonisti non è esente, come giustamente si è scritto in Germania, dove il film ha suscitato molte polemiche, da una certa mitizzazione dei protagonisti, soprattutto di Andreas Baader e Gudrun Ensslin (interpretati da attori indubbiamente fascinosi) che, fra vestiti alla moda, spregiudicatezza ed esaltazione per la guida veloce, sembrano a tratti delle rockstar e a tratti dei simpatici gangster di Tarantino: feroci ma coraggiosi. Adesso, se questa immagine in parte corrisponde a verità ed è stata, negli anni ’70, un ingrediente fondamentale del “successo” dei terroristi (lo stesso mito d’altronde circondava in Italia le Brigate Rosse), adesso appare francamente scorretto riproporla tale e quale, per di più potenziata da immagini sfavillanti, suoni potenti e ritmo arrembante. Il regista, che d’altronde ha dichiarato di aver subito in gioventù il fascino della banda, sembra essersi ispirato a film come Assassini nati di Oliver Stone, che però aveva saputo rendere la sua opera ben altrimenti disturbante rivelando inesorabilmente, nel corso del film, il fondo di follia che scorreva dietro il fascino maledetto della coppia protagonista. Ecco, quest’analisi, questo doppio fondo, nel film di Edel manca totalmente. Chi erano Andreas Baader e Gudrun Ensslin? Cosa li motivava? Dopo Der Baader Meinhof Komplex non ne sappiamo di più, anche se ci sentiamo piuttosto scossi per la potenza di fuoco emanata dal film.
Per Schattenwelt le cose stanno un po’ diversamente perché la vera protagonista, in questo caso, è una donna che da bambina ha visto cadere il padre, vittima non prevista, durante un’azione della Baader Meinhof (seconda generazione, probabilmente). Nel film la incontriamo quando ormai è una donna, con un bambino di cui ha perso la custodia per maltrattamenti. Nel suo stabile viene ad abitare un ex terrorista, liberato dopo 22 anni di prigione. Da quel momento il suo unico pensiero sarà vendicare la morte del padre. A differenza del film di Edel, tratto dal libro di Stefan Aust, la vicenda è inventata e non si ispira a fatti realmente accaduti ma è una sorta di storia esemplare sui temi del passato che non passa, della complicità fra vittima e carnefice, sulla violenza che genera altra violenza, sui traumi che non se ne vanno o lo fanno solo alla luce riconciliante della ricostruzione veritiera. L’aspetto più interessante del film è che la donna, letteralmente posseduta dal desiderio di vendetta, ha assunto i modi di fare, la psicologia, l’efferratezza di una terrorista. Il terrorista liberato, infatti, ne riconosce “il marchio di fabbrica” e fra loro si stabilisce un’indubbia, pericolosa, attrazione. “Saresti stata uno dei nostri” le dice. In effetti la donna è rappresentata proprio come una delle eroine di Uli Edel: bella, spietata, violenta, inesorabile, coraggiosa. Solo che lei non ha nessuna motivazione ideologica, nessuna componente militante: è stato un trauma infantile a renderla così, ad appiccare il suo odio incoercibile e a renderla infine una torturatrice e un’assassina. E’ una storia estrema, una deriva forse possibile in chi ha assistito all’uccisione di un parente, anche se del tutto ipotetica. Sarebbe interessante sentire cosa ne pensano i veri parenti delle vittime, di questa rappresentazione, anche se è del tutto chiaro che l’intenzione della regista, e degli sceneggiatori, era di costruire una storia esemplare, metaforica, da cui escono tutti sconfitti. Forse solo qualche scampolo di verità sottratta alla rimozione può salvare, può dare una seconda chance.
Chi scrive non conosce purtroppo a fondo la cinematografia tedesca recente (pochissimi sono i film tedeschi distribuiti in Italia): l’impressione però – a giudicare, ripeto, esclusivamente da questi due film – è che in Germania il processo di elaborazione del lutto, di ricerca di una interpretazione condivisiva della stagione del terrorismo, stia alle battute iniziali.