Purtroppo devo citare “Carnage”, del grandissimo Roman Polanski. Lo faccio subito e ce lo leviamo di torno. Non ci fosse stato un precedente tanto illustre, con quattro premi oscar chiusi in un appartamento, questo “Dobbiamo Parlare” di Sergio Rubini farebbe saltare su dalla sedia e gridare al capolavoro.
Ma qui voglio fare una apologia della copia, soprattutto a tutto al cinema italiano.
Saper copiare è un’arte. Ispirarsi a dei maestri, e reintepretare quella ispirazione radicandola nel proprio tessuto umorale, è segno di grandissime capacità. E’ segno distintivo dei grandi artisti: sono tutti “ladri” – o “copioni”.
Questo film è quasi perfetto. Oppure è perfetto, ma ha scelto un finale diverso da quello che era previsto nel suo codice genetico. Ma di questo vi dirò dopo.
Il “plot” del film dunque viaggia in parallelo, a specchio, con il suo illustre predecessore. Dai buoni propositi piccolo borghesi, conditi da un misto di “politically correct” e di “signora mia, ma non mi dica”, la situazione si evolve secondo il filo della “suspense” fino a giungere allo scorticamento finale, dove tutti si dicono tutto, nel gran finale.
La suspense è un meccanismo molto difficile da controllare. Lo sapeva bene il suo maestro, Alfred Hitchcock. Prima distribuiva le carte agli spettatori, informandoli di tutta la situazione, ma gli faceva solo intravedere gli sviluppi. Poi ritardava questi sviluppi, ingenerando una tensione quasi insopportabile per poi liberare, al momento giusto, il cagnaccio: stesso meccanismo dell’amplesso come si deve.
Tecnica raffinatissima e delicatissima, che gli sceneggiatori di questo film, insieme a Rubini, il regista, dimostrano di conoscere e padroneggiare perfettamente.
Noi sappiamo già tutto di “Dobbiamo parlare” fin dalle prime scene, e prevediamo il peggio, che puntualmente arriva. Ma a tempo giusto, in una schermaglia fittissima di battute piene di riprese e di riferimenti interni che, via via, diventano sempre più colpi di fioretto che fanno bene, al posto di ferire.
L’intellettuale, il grande medico, la podologa e la ghost writer si scambiano il “focus” della scena, come nella magistrale orchestrazione delle “Affinità elettive” di Goethe.
E qui mi spunta un pensiero malevolo, una domanda maliziosa: ma allora di gente che sa scrivere divinamente un film di caratura internazionale, che sa padroneggiare i dialoghi e le battute, in Italia ce n’è! E perché non prende il sopravvento, perché non batte lei il tamburo della produzione cinematografica, lasciando invece a quelle sorte di parvenue che sono i registi autodidatti, alla Verdone per intenderci, che si scrivono tutto da soli (perfino le musiche) altrimenti non si sentono “grandi artisti” ― e che sembrano non comprendere che basarsi su gradi talenti li porterebbe nell’empireo?
Colpa dei produttori, legati agli incassi facili delle Vacanze natalizie? Colpa di un sistema generale italiota in cui il merito è l’ultima delle variabili da prendere in considerazione, laddove amicizie e conoscenze costituiscono il viatico maestro per l’ottenimento del credito e l’avvio della produzione?
Non vi saprei dire: ma la squadra che ha lavorato a questo film ― lo si capisce perfettamente ― potrebbe arrivare a qualsiasi altezza, potrebbe giungere dappertutto.
E con questa considerazione vi lascio.
Ah, dimenticavo: il finale. E’ sbagliato, ma mi piace. E’ un finale di sinistra. Apprezzo, e condivido: occorre dare ai giovani una via di uscita, che stravolga la miseria di una vita piccolo-borghese (i soldi, anche tanti, non migliorano la situazione) e la “rottamino” per qualcosa di più intenso, di più degno di essere vissuto.
Il finale inscritto nel DNA delle premesse sarebbe dovuto essere il seguente: al mattino apre la porta dell’appartamento-prigione il vituperato cameriere filippino, e rimette a posto tutto. Silenziosamente, con i protagonisti addormentati e disfatti. E soprattutto ignari. E ricomincia tutto daccapo, in una ripetizione infinita. Una vita che soffoca.
Bravi tutti.