Capita anche ad alcuni autori fregiati di autorialità, forse specialmente a loro, di trovarsi imbrigliati in quei temi e stilemi che hanno dato al loro nome, nel farsi delle loro opere, connotazioni di coerente ricerca e perseverante urgenza investigativa. Palermo Shooting è un pastiche stanco e ingarbugliato in se stesso da quei medesimi temi da sempre cari a Wim Wenders, un film con molti difetti e qualche (solito e autorialmente riconoscibile) pregio.
La parte girata a Dusseldorf che vede Finn, famoso e acclamato fotografo, in preda a una tormentata crisi professionale ed esistenziale, fila via senza troppi problemi. Questi ultimi si manifestano invece copiosamente nell’avanzare della pellicola e nello spostarsi della storia presso una Palermo che dovrebbe essere, tra l’altro, summa e corrispettivo oggettivo dell’interiore travaglio del protagonista, ma che Wenders non riesce a cogliere come vorrebbe. Le sue immagini restano poco esplicative rispetto agli intenti, e questo per ironia della sorte, aggiungeremmo, perché il film è in parte proteso (forse eccessivamente) proprio nell’indagine e sul senso del rapporto tra l’immagine e la sua possibilità di cogliere la realtà, la sua capacità o preclusione nel cogliere una qualche metafisica verità dal magma indistinto del mondo.
Ma le speculazioni continuano anche su altri fronti: presente e scorrere del tempo, vita e morte. E su queste troppo palesi e manifeste riflessioni, sceneggiatura e personaggi diventano puro pretesto, non elementi fondanti ed essenziali alla storia, ma snaturati componenti strumentali che rendono la pellicola smaccatamente pretenziosa oltre che retorica. Eccessivi simbolismi e riflessioni dal tocco poco lieve, e quindi eccessivamente palesati, danno forma ad un film imprudente con aspetti di ingenuità degni di un regista pivello alle prime armi piuttosto che ad uno come Wenders che ci aveva tra l’altro abituati (sugli stessi temi), a ben altri e più misurati registri. Temi forse un po’ logori che avrebbero necessitato una maggior parsimonia e precauzione visti anche i ben più eccelsi precedenti dei registi a cui il film pure si ispira e a cui è dedicato: Bergman e Antonioni. Come non screditare la carrellata di luoghi comuni nel faccia a faccia finale con la morte impersonata da Dannis Hopper a confronto con Il Settimo Sigillo bergmaniano?
Non brilla ahinoi neppure La Mezzogiorno che nella mimica facciale indossa ancora una volta le vesti di un cerbiatto spaurito. Più capace invece il Flinn di Campino, storico cantante del gruppo tedesco Die Toten Hosen. Tra gli altri, comparsa a sorpresa di qualche secondo, sotto le vesti di un fantasma, di Lou Reed.
Resta di Wenders, del suo tocco, la sempre raffinata cura delle immagini e dell’inquadratura che non salvano però un film che forse tocca tra le punte più basse della filmografia dell’autore. Viene da chiedersi se la Regione Sicilia, e le varie province che hanno sovvenzionato il film, abbiano prima letto il progetto e la sceneggiatura o se al contrario abbiano patrocinato a scatola chiusa, fiduciosi di un ritorno turistico/pubblicitario.