Perchè sì |
Perchè no |
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di Vincenzo Avagliano Già con Garage Olimpo e Hijos, presentato a Venezia nel 2001, Marco Bechis ci aveva abituati ad un cinema d’impegno. Ora ritorna, dopo averlo presentato in concorso all’ultimo festival di Venezia, con un film che affronta il dramma vissuto dalle popolazioni indios Guarani-Kaiowa del Mato Grosso, in Brasile. Queste popolazioni hanno subito la perdita quasi totale delle loro terre da parte dei cosiddetti fazendeiros che le hanno disboscate e trasformate in piantagioni di canna da zucchero; gli indios sono stati relegati in riserve, istituite dal governo, così ristrette da non riuscire a procurarsi da mangiare e vivere e per farlo sono costretti a lavorare proprio in quelle piantagioni o nelle distillerie di alcol che si trovano nei dintorni. La loro disperazione è tale che negli ultimi vent’anni più di cinquecento di loro si sono suicidati, soprattutto giovani, stanchi dei continui soprusi e delle angherie a cui erano sottoposti, un vero e proprio sterminio che ha progressivamente decimato la popolazione ridotta ormai a poche migliaia di unità. Proprio il suicidio di due ragazze dà avvio al film e spinge la tribù, stanca di vivere nella riserva, a trasferirsi ai margini della proprietà terriera di un ricco fazendeiro, il quale, cautamente, non manda subito via gli indios, ma invia sul posto uno dei suoi uomini (Claudio Santamaria) per tenerli d’occhio. In questa fase delicata indios e “bianchi” si scrutano, e pur rimanendo separati, provano curiosità reciproca, soprattutto alcuni giovani: Osvaldo inizia ad amoreggiare con la spregiudicata e annoiata figlia del “padrone”; lo spaventapasseri Santamaria, buffissimo e gabbato dalle ragazze della tribù, brama invece ardentemente una donna indio. Nonostante i continui tentativi, i rapporti tra indios e fazendeiros rimangono due mondi separati e contrapposti senza alcuna possibilità di entrare in reale comunicazione tra loro. Infatti, la situazione precipita: dopo l’ennesimo suicidio, gli indios dichiarano guerra aperta ai bianchi e occupano gran parte della proprietà; ma i loro nemici, ricorrendo alle armi, finiranno per uccidere brutalmente Nadio, il capotribù, proprio davanti agli occhi di tutti i suoi compagni. Nessuna possibilità di conciliazione è ormai possibile. La terra degli uomini rossi – Birdwatchers ha il grande merito di porre l’attenzione sul tema dell’altro da noi, del diverso così attuale anche dalle nostre parti, dando risonanza a una tragedia spesso ignorata. Bechis sposta totalmente il punto di vista dalla parte degli indios: sono i personaggi dei fazendeiros a rappresentare “l’altro”, rimanendo relegati sullo sfondo, in ruoli secondari. Nel presentarci gli indios, i loro costumi, le loro abitudini, lo sguardo del regista è privo di qualsiasi deformazione occidentale, li lascia nella loro dimensione reale e non esotizzata,li tratta come persone concrete, vivaci, a volte anche spiritosamente volgari, e non come attrazioni turistiche (come invece fa Chiara Caselli, moglie del proprietario terriero, che paga gli indios affinché si dipingano e si travestano in maniera tradizionale per impressionare i suoi ospiti europei durante una gita in barca). Nonostante la tragicità del tema, la regia di Bechis non punta ad un facile coinvolgimento emotivo dello spettatore, rinuncia a snodi ad effetto del plot e cerca piuttosto uno stile asciutto ed essenziale, lasciando che siano i fatti nel loro dispiegarsi ad esprimere tutta la drammaticità della vicenda. Ciò rappresenta da un lato la vera forza del film, dall’altro, forse, costringe lo spettatore a rimanere al di qua di un pieno e totale coinvolgimento. |
di Massimiliano Di Giorgio
Se lo avessi visto in lingua originale, forse avrei apprezzato meglio l’ultima pellicola di Marco Bechis. Perché se un film, forse più di altri tipi di narrazione, ha bisogno per funzionare dell’adesione, dell’immedesimazione dello spettatore all’interno della storia, sentire parlare gli indios in un italiano che fa il verso a una versione gutturale del brasiliano, be’, non aiuta affatto a immedesimarsi. Piuttosto, l’effetto ricorda quei film comici stranieri in cui, nella versione italica, i personaggi parlano con un imbarazzante accento regionale… (Potrebbe sembrare l’ennesima polemica nei confronti del doppiaggio, e in parte lo è, ma visto che in questo film i dialoghi non sono né la cosa più estesa né quella più importante, i sottotitoli non avrebbero arrecato gran disturbo, neanche allo spettatore pigro). Di La terra degli uomini rossi salverei senza dubbio la scena iniziale, quando gli indios, dopo aver recitato la loro parte di bravi selvaggi a uso di un gruppo di turisti, ricevono la paga dal “caporale” e si rivestono con le loro magliette da moda globale – e probabilmente fabbricate anche quelle in Cina – prima di tornarsene nella loro triste riserva. Quel ritratto efficace dell’artificialità, cioè della condizione artificiale in cui vivono gli indios, è la cosa meno artificiosa del film, e anche la meno prevedibile. Il resto invece, nonostante le buone intenzioni di Bechis, mi è sembrato un quadretto già visto, tranne rare eccezioni. La storia si sviluppa secondo un sentiero prevedibile, con i Guaranì che decidono di lasciare la riserva per tornare a occupare le terre degli avi (da cui sono stati scacciati qualche decina di anni prima, in realtà), l’entusiasmo iniziale, il cameratismo, le difficoltà, i momenti di empatia col nemico, l’inevitabile tradimento, la fine tragica. Accanto alla dimensione comunitaria, c’è poi l’intreccio delle singole vite, dominato in gran parte dagli adolescenti e dalla loro contagiosa voglia di vita, che supera anche gli steccati razziali e di classe, salvo poi volgere immediatamente verso l’autodistruzione al contatto con la più cruda, molto meno poetica, abitudine alla sopravvivenza degli adulti. Anche qui, però, molto è già visto. Le ragazzine bianche che prima scherniscono poi corteggiano i giovani indios, o il ragazzo che si suicida dopo il duro rimprovero paterno per aver acquistato un paio di scarpe da ginnastica invece che essenziali cibarie – le scarpe sarebbero state essenziali per accrescere l’autostima e rimorchiare, invece, ma questo il suicida non ha tempo né soprattutto coraggio di spiegarlo al genitore – i fazenderi che decidono di farsi giustizia. Credo che il limite del film sia quello di non riuscire a emozionare. Bechis finisce così per cercare di parlare con tempi, pause e modi da antropologia culturale. Senza però che il suo sia un documentario. E la sensazione di dejà vu, di luogocomunismo, si riaffaccia un po’ dappertutto. Per esempio, nella formazione del giovane sciamano, a tratti comico nel tentativo di dominare i suoi impulsi e soprattutto feromoni. Nella figura della donna del gruppo, povera ma gelosa della sua indipendenza, della sua capacità di attrrarre gli uomini. E nei personaggi a latere di Claudio Santamaria, che pare sempre appena uscito da un set di periferia romana (e che ha una sola espressione, che porti il cappello oppure no) e di Chiara Caselli. Così a latere, quest’ultima, da rasentare la trasparenza sullo schermo. Mentre gli attori indios, apparentemente autodidatti, mostrano di saperci fare. Riesce a sorprendere invece la scelta musicale. Uno dice Brasile e si aspetterebbe tutto un repertorio noto, mentre invece quel che domina qui è il country “alla brasiliana”, la musica delle grandi distese, le ballate da west amazzonico. Che fanno dimenticare un certo uso di musica classica – segnatamente brani di Domenico Zipoli, il cosiddetto “compositore degli indios” – che in certi momenti ricorda Mission. |
a me è più piaciuto che dispiaciuto, c‘è rigore nel rappresentare le emozioni, a tratti esplosive, e scelta di indagare il punto vista dell’“altro”, più che il proprio. L’istinto sessuale, vitale, che muove i personaggi ad andare oltre lo steccato, poi, mi sembra ben riuscito. Insomma, sono d’accordo con Vincenzo.