Perchè sì

Perchè no

 di Andrea Lupattelli

Il papà di Giovanna di Pupi Avati (in concorso all’ultimo Festival di Venezia da cui torna con una meritata Coppa Volpi a Silvio Orlando) racconta un dramma familiare che si staglia sullo sfondo dell’Italia fascista, che di lì a poco (siamo nel 1938) conoscerà la tragedia della guerra. Pur non avendo la volontà di compiere un’analisi storica e prestando fede alle parole del regista, il quale ha dichiarato che il “fascismo è soltanto la colonna sonora del film”, c’è da stabilire quale immagine il film offre del regime. Perchè se è vero che gli anni bui della dittatura sono soltanto la cornice storica dentro la quale Avati innesta questa storia nera, che sembra sortire dalla cronaca odierna, è altrettanto vero che alcuni dei personaggi che la abitano hanno direttamente a che fare con la dittatura: lavorano per il fascismo, indossandone lo spirito. Che non sia in primo piano è più che evidente, ma la Storia nel film ha un suo peso che non va sminuito in funzione del significato esclusivamente contestuale che il regista attribuisce ad essa.
Il personaggio interpretato da Ezio Greggio, ad esempio, è un poliziotto che abusa continuamente del suo piccolo potere, esibendo la sua tessera di funzionario del regime per godere dei piccoli vantaggi che il suo ruolo gli offre. E’ un po’ meschino, ma in fondo generoso perchè bonariamente aiuta la famiglia di Michele Casali (Silvio Orlando) in difficoltà economiche. Un personaggio la cui traiettoria approderà addirittura al ruolo di vittima: sarà ucciso da uno spietato plotone di partigiani rancorosi (ma guarda un po’…). Avati restituisce una visione edulcorata del regime, ma non per fini revisionistici. E’ un autore apolitico, non disimpegnato, e in questo film, come sempre, i protagonisti sono i sentimenti. Michele è un professore di ginnasio sposato e con una figlia disturbata la quale un bel giorno taglia la gola alla sua migliore amica colpevole secondo lei di flirtare con il suo ragazzo. Le indagini la inchiodano e la sentenza la vuole rinchiusa nel manicomio di Reggio Emilia. I disturbi di Giovanna hanno origine nel rapporto con i suoi genitori. Con il padre ha un rapporto morboso, lui sembra eccessivamente protettivo, in realtà tenta di preservarla dalla sofferenza perchè la conosce, la ama e sa quanto sia vulnerabile. Quando avverte il ragazzo, l’unico con il quale la figlia parla a scuola, in un atto che sembra di possessività soffocante (“tu le puoi fare molto male”) è come se presentisse la tragedia. Dal rapporto privilegiato tra padre e figlia rimane fuori la madre, Delia (Francesca Neri), una donna che non ama suo marito, che non lo ha mai amato, ma che non ama neanche sua figlia. Vive una vita che non vuole. L’uomo che vuole forse è l’uomo della porta accanto, l’amico di famiglia interpretato da Ezio Greggio, poliziotto infelice che vive con una donna disabile (Serena Grandi). Nei loro sguardi sommessi sembra albergare il rimpianto di ciò che non hanno potuto avere. Dopo l’omicidio, Michele continua a seguire la figlia, animato da un amore infinito mentre la madre non vuole più saperne. Scoppia la guerra, gli aerei distruggono Bologna ma Michele sembra non accorgersene. Pupi Avati mette in scena un dramma dei sentimenti e lo fa con grazia senza portare a giudizio nessuno dei personaggi, anche quelli che non riescono ad amare fino in fondo. Il personaggio di Giovanna con il suo atto omicida fa da detonatore spingendo chi le sta vicino a fare i conti con i propri sentimenti anche quelli più brutti che in un ambiente retrivo e ipocrita com’è la Bologna descritta nel film non possono essere accettati. Molto bello l’uso del bianco e nero che incornicia il film all’inizio e nel finale.

di Arianna Biagi

Pupi Avati racconta l’Italia fascista, fotografa la famiglia piccolo borghese del ventennio: le frustrazioni, le dinamiche sociali, le inquietudini. Pupi Avati racconta il dramma familiare della malattia mentale, la solitudine e l’ignoranza in cui viene agito finché non oltrepassa la soglia della forzata normalità, sfociando nella cronaca nera. E poi la guerra. Il manicomio. La liberazione. Il papà di Giovanna, nonostante le intenzioni del regista che voleva ridurre la storia a semplice cornice e la bravura di alcuni interpreti, è questo pastiche narrativo, i cui ingredienti si sovrappongono gli uni agli altri come strati di un dolce un po’ melenso, dove il “pan di Spagna” delle intenzioni è troppo sottile per evitare la confusione. Silvio Orlando merita la Coppa Volpi nonostante l’eccesso di buonismo di cui è vestito il suo personaggio: uno sbiadito padre di famiglia la cui moglie (una altrettanto brava Francesca Neri) non solo non lo ama ma rifiuta il frutto del loro matrimonio, la figlia Giovanna, a causa dei disturbi mentali con i quali è nata. Delia (questo il nome della moglie) è la donna frustrata che si è sposata per uscire di casa,  la cui bellezza e giovinezza, sono sfiorite nella mediocrità del dovere quotidiano di moglie e madre e le cui uniche distrazione sembrano essere il parrucchiere, lo specchio nel quale riflettere il rimpianto di una vita non vissuta e gli sguardi furtivi che scambia con il vicino di casa: un poliziotto del regime sposato con una donna disabile (Serena Grandi), interpretato da un Ezio Greggio dal volto ingessato, sempre a un passo dal trasformarsi nell’ironica smorfia del conduttore di “Striscia la notizia” e “Veline”. Impossibile non applaudire Alba Rohrwacher nell’interpretazione di Giovanna, col volto segnato dal disturbo mentale, dalla follia omicida e dall’assenza di chi attraversa la realtà sotto il velo del disagio. E giusto è anche guardare al film di Avati con la consapevolezza del talento che lo contraddistingue nel mettere in scena sentimenti e dinamiche interiori e familiari. Forse proprio per questo riesce impossibile non criticare certe scelte narrative, l’idea stessa di concepire la messa in scena apolitica della storia (che poi evidentemente non è) e l’uso di escamotage cinematografici  scontati, volti a suscitare l’adesione sentimentale dello spettatore. Il papà di Giovanna è troppi film insieme. Si rappresenta tanto, troppo e forse si riesce solo a dire la difficoltà di gestire il dramma della patologia fra le mura domestiche. Anche per far questo, però, ecco la rappresentazione anni Settanta del manicomio come luogo di orrore, i medici e le infermiere sono i cattivi con le armature bianche dei camici, simili a scudi volti al mondo “di fuori”. E’ tutto vero ma già detto e raccontato, anche meglio. La guerra è dipinta con pennellate grossolane, e anche queste straviste, di bombardamenti,  rifugi improvvisati nelle cantine, aerei che si stagliano nel cielo accompagnati dal suono degli allarmi; il tutto condito da scene lacrimevoli come quella della donna che partorisce sotto i bombardamenti o il bambino che muore sotto le macerie, e l’occhio del regista a inquadrare il giocattolo che riemerge dalla polvere. Sembra che Avati volesse strappare per forza la commozione degli spettatori, la lacrima emotiva da telenovela.  Così la moglie del poliziotto già paralitica, finisce anche lei sotto le bombe, mentre la maschera eternamente comica di Greggio si aggira per la casa vuota di lei, salvo poi appena l’amico dirimpettaio gliene dà il permesso, andarsene con la di lui moglie, mentre la figlia langue in manicomio. La guerra come spartiacque di un prima e un dopo non solo narrativo ma anche umano: Delia tornerà addirittura con il marito, incontrato per caso in un teatro mentre si accompagnava ad un altro uomo, vista la fucilazione di Greggio-polizziotto-fascista. Lo stesso Michele-Orlando, a tratti instupidito dalla troppa bontà, arriva a impietosire lo spettatore piuttosto che suscitare un’autentica adesione umana al dramma che vive. Il papà di Giovanna è un film di abbozzi narrativi, di intenzioni lasciate per strada, di promesse mantenute solo a metà o sostenute dall’indubbia bravura di alcuni interpreti, ma non è certo la pellicola che ci si aspetta da un maestro come Avati. 

2 Replies to “Il papà di Giovanna”

  1. Pur essendo pienamente daccordo con il commento secondo il quale in questo film sia stata messa un pò troppa “carne al fuoco”,quasi a voler accontentare tutto e tutti , allo stesso tempo trovo geniale il ruolo della guerra , vero apice e punto di rottura di un prima e un dopo di una situazione che altrimenti non muta affatto.. Il manicomio senza la guerra avrebbe esaurito lo scopo stesso del film.
    Riguardo gli attori un applauso di incoraggiamento ad Ezio greggio che senza volerlo è riuscito nell’arduo compito di farci ridere anche in una situazione tragica come quella descritta nel film…decisamente da rivedere, anche se il ruolo è azzeccatissimo!!
    Sinceri ringraziamenti ad Andrea ed Arianna che attraverso i loro commenti mi hanno fatto apprezzare ancora di più un film comunque da vedere.

  2. Il papà di giovanna è un film brutto, noioso, ma soprattutto inutile. Pupi Avati non ha la forza ne la bravura per raccontare la storia che aveva intenzione di raccontare. Il film fa acqua da tutte le parti: la ricostruzione è vergognosa (ed è inutile che il sig. Avati dica che il fascismo è solo lo sfondo, “la colonna sonora”, del film, perchè così non può e non deve essere: da cosa è retta nel film questa scelta?); e poi il personaggio di Orlando è un personaggio che non esiste, un padre che si può definire ‘moderno’ portato indietro di 60 anni; Ezio Gregio è improponibile. Potrei continuare ma la smetto qua.
    Pupi Avati non deve fare film del genere. Che torni a fare film di serie B, come ha sempre fatto, e che la smetta di voler fare il morale, l’educatore.

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