La figura del reducista fu un carattere tipico della letteratura e del cinema italiano del secondo dopoguerra. Specchio di una realtà che vide circa 900.000 italiani tornare in patria da vinti dopo mesi o anni di prigionia. La psicologia del reduce, alternativa narrativa all’elaborazione del lutto delle vedove e degli orfani, fu una chiave di lettura veramente efficace per sbrigare la complessa matassa sociale di quegli anni: gli anni della Ricostruzione senza ricostruzione; del dopoguerra della Guerra Fredda; gli anni dell’antepace come definì Giovannino Guareschi, reduce egli stesso, il periodo compreso fra l’aprile del 1945 e l’aprile del ’48.
Il Sergio di Gino Cervi in Un uomo ritorna di Max Neufeld (1946) – presentato nella retrospettiva Questi fantasmi: Cinema italiano ritrovato – è un caso esemplare di rappresentazione drammatica di questi uomini che stentarono a tornare e che, talora, non tornarono mai veramente. Il neologismo “neorealismo” fu coniato dalla critica giusto l’anno prima per il Roma città aperta di Rossellini, ma lo spirito e le istanze di quella che diverrà la tradizione culturale del nuovo realismo lavorano già profondamente nella finzione di Un uomo ritorna, nobilitando gli intenti della produzione e infittendo la categoria delle pellicole “attente ai fatti”, ovvero ai postumi e alle tragedie del delirio fascista.
Il prologo del film mostra un lavoratore appassionato, un uomo forse innamorato della vedova Adele (Anna Magnani), affezionato alla madre e sereno nel ruolo di fratello/padre. È un totale umano che stacca rapidamente sullo scoppio della guerra, sull’entrata in armi dell’Italia e ancor più rapidamente, tramite qualche immagine rubata ai cinegiornali di guerra, sulla fine delle ostilità e sul rimpatrio dei prigionieri. Alla fine dell’aprile ’45 l’Italia è un tappeto di rovine materiali e spirituali. La famiglia del reduce e disoccupato Sergio non vive più in provincia e cerca come può di sfamarsi in città. La ricerca dei familiari svelerà a Sergio la vita notturna romana, tra night e prostituzione; il mercato nero; il disinteresse degli alleati per l’urgenza della nostra ripresa economica, al limite del boicottaggio; e soprattutto l’odio, detrito della guerra civile, con la voglia di vendetta che ancora, e ancora per molto, asseta il popolo.
Tematiche ostili per il cinema italiano di quegli anni, ferocemente sotto osservazione alleata nonostante l’uscita in quello stesso anno di Paisà e Sciuscià. La sceneggiatura di Luigi Giacosi, Ivo Perilli, Anton Giulio Majano e Umberto Del Giglio parla in maniera netta, diretta, senza ambiguità. E Max Neufeld, divo del muto, attore austriaco di origine ebraica che fu costretto a riparare prima in Italia e poi, durante la guerra in Spagna, e che da noi fu reso celebre dalla commedia Mille lire al mese (1938, con Alida Valli e Osvaldo Valenti) non esita a inquadrare frontalmente, aggressivo e schierato (ma la sequenza stilisticamente più bella del film sembra uscita da una commedia musicale, con Luisa Poselli ballerina/cantante e la macchina da presa che la segue con movimenti fluidi e perfetti).
Tematiche, dicevamo, che non potevano sfuggire alla solerzia degli organi censori del MinCulPop non riformato, abitato permanentemente dagli stessi funzionari del regime e con la diplomazia andreottiana da venire a breve. La revisione cinematografica della primavera del ’46 culminò con i “tagli suggeriti” del 3 maggio: “eliminazione dell’episodio dei banditi (che rapinano i reduci, ndr) – abolizione del colloquio di Cervi con gli ufficiali inglesi – abbreviare la scena in cui la sorella di Cervi appare seminuda – abbreviare il pronunciamento della folla contro il repubblichino – modificare l’arringa del difensore nella difesa dei fascisti dopo l’8 settembre – togliere la scena in cui la Magnani investe il magistrato”.
I tagli furono effettuati e il film uscì in sala martoriato, ragion per cui recupero e restauro della pellicola sono risultati oggi lunghi e difficoltosi (il film è ora edito in dvd da Ripley’s Home Video con le parti tagliate recuperate da un negativo francese e sottotitolate in italiano).
Già non sorretto da una narrazione fluida, già povero per scenografie, costumi, ambienti (il Sergio reduce sembra ancor più in forma del Sergio anteguerra), forse anche girato in fretta come si usava allora (Gino Cervi girò quello stesso anno altri cinque film: Aquila nera, Cronaca nera, Furia, Malia e Umanità. La Magnani altri quattro: Abbasso la ricchezza, Avanti a lui tremava tutta Roma, Il bandito, Lo sconosciuto di San Marino), il film non ebbe successo commerciale. Ma oggi vale sicuramente la pena vedere ancora Anna Magnani sputare odio contro i repubblichini (come contro i tedeschi in Roma città aperta) trattenuta a forza dalla polizia in mezzo ad altre donne (come in Roma città aperta), a dare loro la voce che raramente ebbero. Salvo stavolta vederla sopravvivere, allontanarsi lentamente, rassegnarsi, rasserenarsi e instradarsi, a fatica, verso la pace.