Nel folto gruppo di film che la retrospettiva Questi fantasmi sta dedicando agli anni d’oro del cinema italiano (12 film su 23 sono degli anni Sessanta, più i quattro film sul ’68, più gli extra de La rabbia di Pasolini e Tutto è musica di Modugno), La cuccagna di Salce (1962) si distingue dalle altre commedie in palinsesto (i due film di Vittorio Caprioli e il musicarello Nel blu dipinto di blu) per la modernità delle questioni poste e per la ruvidità e il tono della satira (in questo almeno pari a I mostri di Dino Risi).
Cuccagna: paese favoloso dove la vita scorre lieta e felice, recita il dizionario. L’Italia del boom economico è stato sì un paese favoloso, ma per gli intellettuali, per gli scrittori e per gli sceneggiatori che dal panorama umano e storico di quel tempo incredibile hanno opportunamente ricavato battute formidabili come quelle che nel film di Salce recitano: “Mussolini chi? Il padre del pianista?” e lo sprezzante commento sulle baracche romane sormontate d’antenne “compratevi prima il cesso e poi la televisione”. Catalogo dei parodici effetti collaterali del miracolo italiano che generò sviluppo (industriale) senza progresso (civico), La cuccagna fu girato da Salce tra due “blockbuster” come Il federale (1961), commedia di guerra con Ugo Tognazzi, e La voglia matta (1962), confronto generazionale tra un quarantenne e un’adolescente (ancora Tognazzi con la Spaak), senza riuscire ad ottenere le stesse fortune commerciali. Forse per la mancanza di vere divi e dive nel cast artistico, nonostante un piccolo cameo dello stesso Tognazzi (sketch che sembra veramente uscito da I motorizzati dello stesso anno) e uno del regista (il colonnello con il ghigno delle manovre militari sulla spiaggia).
Oggi questa carenza commerciale è invece uno dei maggiori pregi del film. La cuccagna accende sullo schermo la coppia Luigi Tenco/Donatella Turri, da qui in avanti amici anche nella vita: unica performance cinematografica per il cantautore piemontese, misteriosamente scomparso qualche anno dopo durante un festival di Sanremo, e una delle poche pellicole interpretate dalla bella, e allora diciottenne, Turri che lavorò praticamente solo durante gli anni Sessanta (ma in quello stesso anno lavora anche in Uno strano tipo di Lucio Fulci, il set dell’incontro tra Adriano Celentano e Claudia Mori, e poi, nel ’68, ha un piccolo ruolo per Chabrol in Stephane, una moglie infedele).
Rossella è una giovane che cerca di emanciparsi dalla famigliola piccolo borghese tramite la ricerca di un impiego da segretaria; cerca di rendersi indipendente dal padre-padrone, dalla sorella gravida e dal cognato missino, dalla mamma buona e buonista, tutti ammaliati dall’allegria televisivia di Mike & Pippo. Unico amico in casa un fratello gay che “se c’era ancora lui…”. Rossella incontra dattilografe disposte a tutto per fare le segretarie e impiegate protoveline che aspettano solo “l’occasione giusta per la grana”; conosce gli adescatori di turisti americani per i night di Via Veneto, eterna dolce vita dei furbetti; lavora per imprenditori leghisti in marcia su Roma a caccia di finanziamenti pubblici; ma soprattutto stringe amicizia con Giuliano, lucido sognatore e incallito disoccupato, sorta di comunista solitario che abita uno scantinato o un sottotetto e che con le sue parole e le parole delle sue canzoni (bellissima La ballata dell’eroe) traghetta Rosella sulla riva dell’amore, liberandola dall’ossessione del lavoro.
La cuccagna è costruito intorno alla più spassosa realtà romana, con i suoi lavoratori fannulloni, la burocrazia truffaldina, le tiepide notti di vita, il traffico motorizzato e indisciplinato, gli appartamenti chic del supercitato Eur e le altrettanto citate, ma mai così dileggiate, baracche dei borghetti. E le antenne che si innalzano sulle lamiere sono una metafora dell’albero della cuccagna: il video, il carosello, il quiz, la moda, sono tanti e taglienti i riferimenti alla più amata degli italiani. Salce, regista di oltre trenta film alcuni dei quali dei veri stracult superpop come Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi o Vieni avanti cretino, fu un grande conoscitore di mamma Rai, ma ebbe, come tanti della sua generazione, una cultura tutt’altro che televisiva: fu attore e regista di teatro emigrato per qualche tempo in Brasile (come Adolfo Celi e tanti altri artisti italiani) durante gli anni della guerra; fu poi attore di cinema (un ruolo in Piccola posta nel 1955) e infine regista cinematografico. Già passato giustamente in retrospettiva nel 2004 con Colpo di stato (1968), altra gaudente satira sulla politica partitica dell’inciucio DC–PCI, i lavori di Luciano Salce rimangono oggetto di grande attrattiva per le ricerche da retrospettiva e forse anche per le ricerche accademiche sulle trasformazioni sociali del Belpaese.