Cosa crea l’emozione in un film? L’emozione, che non deve confondersi con la commozione e le lacrime del melodramma, è una sensazione profonda e fragile al contempo: Shorei X film giapponese, in competizione nella sezione "Cineasti del presente", riesce a produrre questo piccolo miracolo. Soggetto del film è la descrizione della vita quotidiana di un giovane uomo che si prende cura della madre, malata di schizofrenia.
Opera prima del giovane regista Kohki Yoshida, Shorei X é, in termini di produzione, un film modesto girato in digitale. La messa in scena si concentra principalmente in un solo luogo: un umile appartamento di periferia dove vivono i due personaggi, prigionieri l’uno della malattia, l’altro del suo senso del dovere e della responsabilità. La loro giornata è scandita dal ritmo di gesti e di lavori domestici sempre uguali: il figlio entra in casa, apre e chiude il frigorifero, fa da mangiare, chiama sua madre a tavola, lava i piatti. La donna si siede, accende una sigaretta, per spegnerla subito dopo, mangia svogliatamente, prende una pillola. I dialoghi sono totalmente assenti nel film, ad eccezione dell’unica visita di un’anziana parente che si inquieta sulla sorte del giovane uomo e gli propone, invano, di cercare l’aiuto dell’assistenza sociale. La tensione psicologica dei personaggi è resa palpabile attraverso la presenza insistente del suono ambiente: quello del traffico della strada e quello del segnale ossessivo di un passaggio a livello.
Delle “evasioni” temporanee spettano ai due protagonisti. Il figlio si reca al lavoro, ma lo vediamo rinchiuso in un altro spazio, quello di un autobus su cui batte la pioggia. La madre scappa di casa, ma si rifugia in una cabina telefonica, cercando di chiamare, non si sa bene chi. La sera i due si ritrovano di nuovo insieme nel loro appartamento. Eppure l’ineluttabilità e la durezza di questa vita non dà origine all’astio. Senza sentimentalismi e false retoriche ci viene mostrato l’affetto che, nonostante tutto, lega queste due persone. Questo affetto passa attraverso dei gesti semplici, ma forti: quando la madre vuole accendersi un’ennesima sigaretta, il figlio gliela prende di mano e schiaccia la cicca in un portacenere, ma qualche minuto dopo ritorna sulla sua decisione e gliene offre un’altra lui stesso.
Impalpabile, una sensazione di calore umano ci pervade: da Shorei X emana una fiducia profonda nel senso dell’esistenza umana. In questo film scarno e contemplativo la cinepresa sa trovare la giusta distanza per osservare i due protagonisti senza invadere il loro spazio vitale. La verosimiglianza della situazione e la naturalezza dei personaggi è tale da darci l’impressione di un documentario, eppure, come ha cercato di spiegarmi il regista in una complicata conversazione mezza in inglese e mezza in giapponese, si tratta bene di un film di finzione, girato con degli attori non professionisti.
Per Kohki Yoshida questo film è stato una questione di vita o di morte o meglio, una possibilità di restare in vita: “Se sono sopravvissuto è grazie a questo lungometraggio. E finché esiterà uno spettatore rimarrò in contatto con il mondo.” Shorei X riflette questo approccio radicale e profondo alla creazione artistica ed è proprio per questo che le sue immagini, fatte in apparenza di così poche cose, ci toccano.