In fondo non è null’altro che un simbolo l’Andreotti di Paolo Sorrentino. Ci sono dei limiti storici entro cui lo statista italiano è incastonato ma sembrano essere tracciati per non lasciar disperdere lo sguardo fuori dall’inquadratura, per non proiettare la mente in fantasie che invece stanno tutte lì sullo schermo. Il film racconta gli anni che vanno dal ’91 al ’96 del grande vecchio, dall’ultima presidenza del consiglio (la settima) all’imputazione nei processi di mafia. Lui, Il Divo, è il protagonista assoluto, l’anello di congiunzione di un disegno cinematografico ricco di invenzioni grottesche e, come spesso si ripete, “felliniane”. Pare di assistere a un concerto visivo che, con le sue sollecitazione sonore, insieme ai mirabili movimenti e ritmi delle immagini, spinge lo spettatore a separarsi delicatamente dalla condizione di gravità in cui riposa nella stretta poltroncina della sala di proiezione, e ad entrare a far parte del flusso filmico. In fondo questo è il linguaggio, in fondo questo è il cinema: la possibilità di raccontare il mondo mentre lo si nasconde, rivelare una qualche verità trasfigurandola, sollecitare i sensi con un insieme di segni poetici.
Chi credeva di viaggiare in prosa, sul filone dei film di inchiesta che tanto hanno dato all’Italia, è rimasto probabilmente deluso. Diverso rigore storico e critico ci sarebbero voluti e differente impianto di messa in scena. Insomma avrebbero voluto vedere qualcosa che non hanno visto. Il fondatore di La Repubblica, Eugenio Scalfari, pur tessendo le lodi dell’autore napoletano, lo accusa di sostenere la medesima tesi dall’inizio alla fine. Ugualmente resta perplesso Mario Pirani sullo stesso giornale. Arriva a definirlo “storicamente e politicamente deviante”. Entrambi paiono dar ragione ad Andreotti quando afferma che le vicende sono più “complesse” di quanto possano apparire. Ma si può controbattere loro che Il Divo lavora su stralci di realtà lievitati dall’immaginazione, di conseguenza più che sulle vicende storiche elabora un discorso sul potere politico. Mi lasciano perplesso poi i tentativi di etichettare Sorrentino e Garrone come neorealisti o addirittura neo-neorealisti. Certo le parole del giudice e scrittore Giancarlo De Cataldo, utilizzate per descrivere quanto hanno in comune alcuni romanzieri e cineasti contemporanei, sono interessanti. Quando indica come loro tratto comune il “definire una complessità oltre la superficie dei luoghi comuni”, il tentativo di afferrare “i contorni troppo spesso indecifrabili dell’Italia, il mutamento antropologico del presente e le ossessioni del suo eterno e inattaccabile spessore reazionario”. Tuttavia mi sembra che i due (ma non solo loro) abbiano proprio accantonato una volta per tutte la tradizione neorealista: magari ci possono essere dei richiami, specie in Gomorra. Hanno invece cambiato radicalmente lo sguardo. Non c’è nulla della svogliata trasandatezza colpita dalla grazia del cinema di Rossellini, per fare un esempio. Non c’è nessun riscatto morale. Non c’è melodramma. Paiono di più essersi abbeverati ai fiumi del grande cinema internazionale, quello che passa nei festival che contano, alle tendenze delle nuove generazioni di cineasti, pur mantenendo un gancio col proprio paese. Sulla stessa linea, con esiti estetici differenti, ci sono Francesco Munzi, Alina Marazzi, Anna Negri, Andrea Molaioli, Gianni Zanasi.
Insomma Il Divo di Sorrentino ci parla di Andreotti per quello che il personaggio ha rappresentato nell’accezione comune, in quanto politico corrotto e burattinaio delle innumerevoli trame segrete che hanno attraversato la storia repubblicana. Il regista per rappresentarlo, anche grazie all’abilità di Toni Servillo, ricorre a delle maschere, ingigantisce i tratti reali per renderli credibili e non scadere nel banale. In questo modo i protagonisti assumono uno status di finzione, separato dalla cronaca televisiva dove la politica trova la sua legittimazione popolare, diventano figure di un potere la cui sostanza è un gioco linguistico ricco di vuoto. Non poteva trovare miglior stratagemma Sorrentino per mostrare il falso splendore dei potenti. In fondo, alla fine del film, resta la sensazione di aver assistito a dei fuochi d’artificio che scompaiono al riaccendersi delle luci in sala.
lungo tutto il film, tante le trovate e i “fuochi d’artificio”, ci si diverte, e la cosa visto il tema è anche un po’ preoccupante, ma alla fine non resta niente. E’ un film frastornante che non incita affatto ad andare alla scoperta della complessità, questa rappresentando piuttosto l’alibi dietro cui nascondersi e in cui trovare consolazione cesellando delle immagini molto affascinanti e molto estetizzanti che, almeno mi pare a ripensarci, non rimandano a niente altro che a loro stesse (non c‘è la metafora da scoprire).
Andreotti preda al fondo di un complesso d’inferiorità e Moro come l’angelo unico statista dalla cui morte sono derivate tutte le corruzioni che conosciamo. Bah.
Così a caldo.
Io direi che il titolo del film racchiude bene l’ideqa dell’autore. Ci sono delle pagine vuote nella vita di un uomo così potente come Andreotti, che Sorrentino ha raccontato. Queste pagine sono fatte di molti momenti vissuti dal “divo” e sconosciuti per la gente comune. La visione del potere, che cambia nel passaggio storico tra la prima e la seconda repubblica, trova nel racconto di Sorrentino il suo emblema. Ed è questo il risultato che si elabora in noi stessi al riaccendersi delle luci in sala. Il regista è riuscito in questo intento, insieme a tutti coloro che hanno offerto, attraverso il loro mestiere, un valore aggiunto a quest’opera, penso ad esempio, al montaggio, alla fotografia e alla splendida interpretazione di Servillo che fa dimenticare di trovarsi di fronte ad una maschera tragica. Obiettivo raggiunto, un fascino che ci accompagna oltre la sala cinematografica. complimenti Servillo!