Sullo schermo appare un ragazzino, magro e dalla capigliatura corvina inconfondibile. Palleggia. Bianco e nero. La palla non tocca terreno, solo aria, piedi, testa, spalle… un amichetto paffuto e alto meno di un metro, commenta guardandolo: “E’ un dio, nessuno mai giocherà come lui”. Il dio è Diego Armando Maradona, poco più che bambino. Un primissimo piano scopre la magrezza e le contraddizioni del dio che viene dai poveri più poveri del mondo: “Ho due sogni: il primo è giocare nella Coppa del Mondo, il secondo è vincerla…”
Emir Kusturica racconta sul grande schermo il calciatore più forte di tutti i tempi e decide di affrontarlo come si fa con i migliori: espone l’uomo. Prima ancora che calciatore Maradona è i suoi limiti, le sue idee, il suo genio e le sregolatezze annesse. E’ un uomo con i tarli della mancata normalità che lo portano in campo a conquistare il ruolo del numero uno tra i calciatori e, fuori dal campo, il ruolo dell’uomo che delude se stesso, i suoi affetti e i sostenitori di tutto il mondo. Ma è anche il dio a cui tutto viene perdonato. Lo dimostrano i milioni di fan di tutto il mondo: dagli argentini che fondano la chiesa maradoniana, con tanto di culti e simboli religiosi, fino ai napoletani che bloccano un’intera città per rendergli omaggio nel 2005 (al suono di “Chi non salta Ferlaino è…), passando per Claudia, amore della sua vita, che è sorretta da qualcosa di più dell’amore, è vinta dalla “religiosità” con cui affronta i dolori, le sofferenze, le conseguenze di una vita accanto ad un uomo come Maradona. Il dio è vinto dai suoi errori, almeno così sembra quando nell’aprile del 2004 è in fin di vita per un arresto cardiaco dovuto all’uso eccessivo di cocaina o quando è di nuovo in rianimazione per un altro infarto, dovuto all’eccesso di alcool. Un dio che durante la prima crisi cardiaca, in lotta tra la vita e la morte, è sicuro di esser stato salvato da Dio che “mi ha tirato su dicendomi che dovevo ancora lottare”.
Ci sono momenti di commozione autentica nel film di Kusturica, ancora una volta l’autore serbo riesce a creare un tango tra il paradosso e l’amarezza dei suoi personaggi estremi. Un giro di situazioni e sentimenti di cui anche Maradona fa parte. Gli eventi più intimi della sua vita vengono spesso accostati ad alcune scene dei film di Kusturica. Un montaggio, un accostamento, delicato e preciso che non lascia traccia autoreferenziale, ma soltanto rievocazione con personaggi e storie già svelati e compatiti da tutti: ed esattamente come il vecchietto di Gatto nero, gatto bianco resuscita con la sua fisarmonica accanto, così Maradona ritorna alla vita, con la consapevolezza che molte cose lasciate per strada non torneranno più.
Le emozioni più forti del film sono legate al rapporto di Maradona con le figlie e con la cocaina che stava per annullare anche questi sentimenti di vicinanza, di intimità affettiva negata, deturpata dal non essere coscienti e presenti nella propria vita affettiva, nella vita di due figlie che nascono e crescono. Momenti di normalità che Diego non si è concesso perché allucinato dall’uso delle droghe, che ha devastato non solo il presente non vissuto, ma anche il futuro dei ricordi mai registrati nella memoria personale e occasionalmente incisi su nastro magnetico. C’è una canzone, che Diego canta con le sue figlie, in cui denuncia la sua dipendenza dalla droga e la solitudine cui si è legato per molti anni, svelando a tutti il proprio male, festeggiando la propria rinascita.
“ Se non fossi stato un calciatore, sarei diventato un rivoluzionario”. Maradona, il dio del calcio, è innamorato di Cuba, di Fidel, del Che, di Chavez e di tutti gli ideali di socialismo e antimperialismo del nostro tempo. Le lotte personali e calcistiche si accompagnano all’impegno politico. Kusturica coglie questi aspetti per trasformarli in riflessioni non scontate su alcuni aspetti del nostro tempo, sulla possibilità di riscatto di alcune nazioni poverissime, ad esempio, di avere rappresentanza e visibilità attraverso i propri successi calcistici. Clamoroso e centrale per approfondire questo tema è il gol di mano che Maradona fece all’Inghilterra ai quarti di finale dei mondiali di Messico 86. Maradona rivendica la legittimità di quel gol come atto di giustizia divina, come riscatto per la guerra delle Malvinas del 1982. A segnare, secondo Maradona, fu la Mano de Dios. L’Argentina aveva tentato di riprendersi le isole Falkland, di incrinare il secolare imperialismo del Regno Unito: ne conseguì una perdita in uomini e mezzi per l’Argentina degli ultimi anni di dittatura e un rafforzamento dell’allora lady di ferro Margaret Thatcher.
A suon di samba, rock e della migliore musica (affidata al figlio di Kusturica, Stribor) il racconto, tra dichiarazioni e gol, approda alla parentesi calcistica maradoniana made in Italy. Pochissimi sconti. “Matarrese? Un mafioso. Sono uscito dai mondiali per l’efedrina… Infatti, in Italia, da quel momento in poi nessun giocatore ha mai più preso nemmeno un’aspirina!!”
E c’è anche amarezza per come si sono svolte le vicende calcistiche del Napoli. Una squadra meridionale che vince due scudetti e diverse coppe, in pochissimi anni, battendosi vincente contro le grandi squadre del nord Italia.
20 novembre 1988: Juventus – Napoli 3-5.Perfino Henry Kissinger restò impressionato in tribuna, al vecchio Comunale di Torino, accanto al suo amico Gianni Agnelli. “Nessuno ci credeva… una squadra del sud che fa 6 gol all’avvocato” (in realtà i gol erano 5, ndr. Segue gesto dell’ombrello, ndr) .
Questo è Maradona. L’uomo che ha trasformato il calcio del ‘900 e che ha tradotto in giustizia divina un gol di mano, che ha urlato con inquietudine antimperialista il suo odio per Bush, Reagan, Thatcher, Carlo d’Inghilterra e per le regole che l’America detta al mondo intero.
“Io ho sbagliato e ho pagato, ma il pallone non si sporcherà mai”.
Concludendo la lunga conversazione con l’ormai amico Kusturica, Diego afferma: “Sai che calciatore sarei stato, se non avessi tirato cocaina? Emir, che grande giocatore ci siamo persi!”