In una recente delibera regionale sarda, tra gli obiettivi da cogliere sono stati individuati l’importanza di un sistema di identità visiva che tenga conto della collocazione internazionale della Sardegna e l’affermazione di un modello di sviluppo sostenibile. Tra gli “eventi” scaturiti da queste premesse, caldeggiato pare dallo stesso “governatore”, si situa il finanziamento del film Tutto torna, diretto dal sardo Enrico Pitzianti e prodotto dalla romana Zaroff Film.
E la commedia di Pitzianti – documentarista che ha permeato di tensione etica e rigore formale molti dei suoi precedenti lavori (L’ultima corsa, Un anno sotto terra e Piccola pesca, tra i migliori) – appare, si direbbe coerentemente alle premesse, come una specie di manifesto della società globalizzata – e dunque di una Sardegna normalizzata – in cui Cagliari, location pricipale, non sembra più lei, e dove tutto appare ridotto a un girotondo colorato e confuso (“alla sudamericana”, come dice lo stesso Pitzianti, che a Cuba ha trovato la coprotagonista mentre a New York, osservando la sua vicina di casa, ha concepito la storia della “vecchina”). La storia si dipana lungo gli spazi che affiorano un po’ alla rinfusa, priva di quella necessità verticale con la quale riuscire a scandagliare la secolare diversità sarda e la sua irrisolta sospensione tra tradizione e modernità. Quello sviluppo, più che progresso, che tanta speranza ha suscitato nei sardi durante il secolo scorso, e che altrettanta rabbia e diffidenza ha lasciato al suo compimento. Frat chie da-e su mare dice un antico proverbio isolano (ruba chi viene dal mare), e a parlar con le parole del cinema potremmo dire che le miniere fantasma e le rapine edilizie lasciate sul campo ben disegnano l’immagine ancora attuale di una Sardegna “sedotta e abbandonata”.
Il film si chiude con una partenza che non è la stessa dell’inizio e il viaggio di formazione di Massimo, ragazzo sensibile trasferitosi a Cagliari da un paesino del nord con il polveroso e panoramico trenino delle Ferrovie dello stato, è dedicato “a chi parte, a chi arriva e a chi torna“. Anche la “vecchina” vicina di casa di Massimo, rovistando tutto il giorno tra gli scarti con sulla schiena la busta degli oggetti via via trovati, non sembra star ferma mai. E’ una lumaca, la vecchia signora, che si porta addosso la propria casa, in qualche modo suggerendo il tema dell’emigrazione forzata in cerca di un lavoro di un popolo che si è mosso sempre. Eppure, al dunque, la metafora perde l’occasione di farsi lampo che apre su qualcosa di più grande, addomesticandosi nei toni lievi e sicuri della commedia (il riso, come spesso accade, finisce per diventare una prigione), alla cui amarezza di fondo, peraltro, il regista sembra preferire un più moderno gusto qualunquista (in questo senso l’innocenza di Massimo, un “sognatore”, sembra rappresentare l’altra faccia della stessa medaglia).
Il passato e le tradizioni, per altro ma non opposto verso, danno l’impressione di sublimarsi nella mostra del riciclo finale, il “tutto torna” del titolo, dove una comunità alternativa parecchio glocal mette in scena alcuni oggetti, scartati dal processo economico e ricuciti in produzioni artistiche, alla presenza delle istituzioni, degli scettici come lo zio Giuseppe, della compagnia cubana e di un ammaccato Massimo, in una specie di confusa riappacificazione spazio-temporale.
Tutto il mondo è paese, recita rassicurante il luogo comune; eppure, e tra paesi neanche troppo lontani, il peggio e il meglio sembrano ancora divisi da tanto mare. E non sempre tutto torna.
Una menzione a parte va ai ricami irrequieti tessuti dalla bravissima montatrice Ilaria Fraioli e all’etno-jazz gutturale composto all’uopo da Gavino Murgia: luci per i naviganti.