Perchè sì

Perchè no

di Giovanna Quercia

Presentandolo a Cannes, Garrone ha parlato della sua Gomorra come di un’opera apocalittica, senza speranza. In effetti tutti i personaggi del film, abitanti di una terra in cui uccidere significa “fare punti”, sono completamente dentro alla logica di guerra che domina il territorio in cui abitano. Non cercano di uscire dal girone infernale in cui si trovano, sono intrappolati, ormai incapaci di immaginare una realtà differente da quella in cui vivono. Alcuni sono indifferenti nei confronti della propria vita, sanno che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Esemplare a questo proposito è il più basso e tozzo dei due balordi che si sono messi in testa di diventare boss: dice sempre “Subito! Subito!”. Subito sparare, subito rubare, subito scopare. Sa che il tempo è poco, che bisogna arraffare tutto quello che c’è il più presto possibile, perché comunque andrà a finire male. E infatti ha ragione: il suo tempo è praticamente scaduto. Sembrano vivere tutti così, senza scelta, con il fucile puntato alla tempia: il corriere che porta i soldi alle famiglie dei detenuti, il ragazzino che vuole fare “carriera” (da garzone di bottega a killer e spacciatore); il sarto che realizza negli scantinati gli abiti che Scarlett Johansson porterà in passerella a Hollywood; e vivono così persino i boss, in un certo senso “costretti” a essere sempre spietati per farsi rispettare. Unica eccezione sembra essere il ragazzo di buona famiglia che un padre rassegnato, in una scena davvero significativa e anche commovente, affida allo stakeholder Toni Servillo convinto che un buon “posto” nella camorra sia comunque meglio di niente. Ebbene questo ragazzo è l’unico, nell’ambito delle 5 storie raccontate da Garrone, che ha conservato quel minimo di capacità di reazione che gli consente di riconoscere quella  voce interiore – come un vago istinto di conservazione – che ad un tratto ti dice “Scappa! Tirati fuori finché sei in tempo! Questa non è vita!”. Quando il suo protettore aguzzino getta la cassetta di pesche contaminate e puzzolenti che una contadina (anche lei forse complice) gli ha regalato, per lui è troppo: scende dalla macchina di Servillo e si allontana solitario per un sentiero del casertano, dirigendosi verso un futuro quanto mai incerto. La sua è una ribellione individuale, forse velleitaria, non sappiamo se gli sarà consentito veramente uscirne fuori né se saprà resistere la prossima volta. Comunque è l’unico episodio di “risveglio” all’interno del film. Gli altri sono dentro al tunnel senza neanche più l’istinto di sopravvivenza: cercano solo disperatamente un momento di gloria, di potere, un brivido di eccitazione prima dell’inevitabile fine. E quando la propria vita non conta più niente, allora si può anche tradire la propria madre, si può inquinare la propria terra, qualsiasi delitto è lecito. La cosa terribile è che Gomorra racconta, con buona approssimazione, quello che sta realmente accadendo nelle periferie e nell’hinterland di Napoli e Caserta. I cumuli dei rifiuti così come i roghi nei campi rom che dominano la cronaca di questi giorni parlano chiaro. Ma non succede solo là: è solo che là si vede meglio. Garrone non giudica i suoi personaggi, non chiude le loro vite in una “trama” , né rende spettacolare la violenza che permea le loro vite. E’ questo soprattutto che si apprezza vedendo il film dopo aver letto il libro: non c’è la minima traccia di exploitation, di sfruttamento dell’epopea camorristica a fini spettacolari, non c’è alcuna tentazione di rendere “leggendarie” le vite criminali descritte con tanta lucida visceralità da Saviano. Il film rispetto al libro prende una maggiore distanza, non parla in prima persona: osserva con attenzione, sobriamente, senza calcare sulle emozioni (troppo facile!) ma con pietà e volontà di comprendere. Purtroppo quel che viene fuori è una realtà in cui la tragedia è diventata banale. Si stenta a credere che, come ha scritto D’Agostini su Repubblica, qualche camorrista si possa sentire gratificato o che qualche giovane spettatore possa prendere a modello i poveri diavoli che vediamo passare sullo schermo. Le esistenze mostrate da Garrone, più ancora di quelle descritte da Saviano, sono assolutamente prive di qualsiasi attrattiva. Si esce desolati da Gomorra, con la sensazione di esserci affacciati su una realtà tanto circostanziata e precisa quanto esemplare e simbolica. E’ un monito sulla catastrofe che si produce quando si lascia prevalere il degrado territoriale, sociale e umano. Per questo il film è piaciuto a Cannes e per questo è stato acquistato in molti paesi. Perché anche all’estero sanno che tutto il mondo è paese.

di Alex Ander

Matteo Garrone, 1968, figlio del critico teatrale de “La Repubblica” Nico, ha studiato al Liceo Artistico. La sua formazione è bidimensionale, mentre lo schermo cinematografico, credeteci, è tridimensionale. Infatti si parla di spazio cinematografico. Questo implica delle regole semantiche diverse dalle regole pittoriche. L’opera pittorica difficilmente si stacca dal suo supporto. Come la fotografia. L’opera cinematografica si stacca dallo schermo. Ogni linguaggio ha un suo codice. Ogni codice ha un suo linguaggio. Il cinema di Matteo Garrone è primitivo, nel senso più storico possibile del termine. Il Cinema, invece, è l’arte più moderna. Primitivo in quanto un insieme di credenze e affinità spirituali, e immaginario collettivo, è consolidato in un’espressione priva di forma, nuda, a-moderna. Provo ad indagare il suo stile. Stile… Meyer Shapiro ci fa sapere che lo stile è un’espressione portatrice di significato, che permette di riconoscere, ma – aggiungo io – non di conoscere. Lo stile è un requisito necessario, ma non sufficiente, per la conoscenza. Nell’arte passa attraverso i segni che fissano l’espressione e il relativo significato. Nel cinema passa attraverso la sequenza di inquadrature che costituiscono una scena.
Montare un obiettivo 18 mm o 25 mm e girare ‘largo’ come si dice, non è propriamente una scelta stilistica (spero che Orson Welles e Gregg Toland, il direttore della fotografia di Quarto potere, mi perdoneranno…). Voglio dire, è più facile inquadrare con un grandangolare che con un teleobiettivo. E lo dico sia da un punto di vista tecnico sia da un punto di vista espressivo/linguistico. Se facciamo un confronto con un servizio giornalistico televisivo dei vari Report, Matrix, Annozero, notiamo che il girato è spesso realizzato in questa maniera; macchina a spalla e/o a mano e tutto largo. In questo modo l’immagine impressa sul supporto fotosensibile è il tutto. Non c’è selezione. Giro tutto e tutto largo. Non c’è composizione del quadro quale scelta del centro d’attenzione. Girando in questo modo prima o poi qualche punto lo metterò a segno (uso la parola segno nella doppia accezione del termine, ossia come fare un punto, fare un gol, sia come espressione di un codice linguistico). Mi lancio in una metafora ittica. E’ come un peschereccio a strascico. Nella rete, prima o poi, il pesce per cui sono uscito al largo ci andrà a finire, anche se in mezzo a tanto altro pesce. Voglio dire, insisto, che Gomorra è un servizio giornalistico ricostruito. E’ pur sempre fiction ma non è un film.
E’ una news raccontata come una fiction o una fiction raccontata come una news? Propendo per la prima ipotesi… eppure sono andato al cinema, non ero davanti al televisore. Non entrerò nel merito di un giudizio (è bello o brutto?), non mi interessa. Parlo di Gomorra come espressione di un linguaggio che ha un suo codice. Nel caso del cinema possiamo parlare delle inquadrature come dei morfemi d’immagine, che sono le unità minime portatrici di significato, e dunque sono un ‘segno’, ovvero sono l’ espressione di un codice. Le inquadrature sono i costituenti del supercostituente film. Se destrutturiamo un morfema d’immagine – la singola inquadratura – avremo il fonema d’immagine, un’unità minima non scomponibile e non più portatrice di significato. In un ipotetico triangolo semantico da una parte abbiamo il significato – la sceneggiatura – da una parte il significante – l’inquadratura – che convergono verso il vertice film quale destinazione finale dell’insieme dei segni del codice cinema.

triangolo

Che cosa è, allora, il fonema d’immagine? E’ il filmico senza profilmico, è un’inquadratura senza centro d’attenzione. E’ il solo mezzo tecnico, vuoi l’obiettivo e/o la macchina da presa, senza declinazione/flessione, senza segno. E’ stile senza style. Continuo la corrispondenza con la linguistica. La parola gatto è scomponibile in due pezzi più piccoli, gatt- e o- ognuno ancora portatore di significato. Il morfema gatt- ci informa che stiamo parlando del felino domestico, e il morfema o- ci informa che è singolare maschile. Il segno gatto è un’informazione completa che ci fa riconoscere il significante gatto per farci conoscere il significato gatto, quale felino domestico singolare maschile. Ora, se prendo il morfema gatt- e lo scompongo in unità minime avrò g-a-t-t. Queste singole unità non sono più dei segni perché non sono portatrici di significato; sono solo dei fonemi. Il fonema d’immagine è l’inquadratura privata del suo segno. Vedo un’immagine – il significante – ma non ne vedo/capisco il significato. E’ la tecnica senza il linguaggio. E’ la pellicola, l’obiettivo, il diaframma, senza, per esempio, il primo piano, il campo lungo e via dicendo con le diverse declinazioni delle inquadrature del linguaggio cinematografico. Garrone è un parlante nativo della lingua cinema, ma senza sintassi. Mi dice gi a ti ti o senza dirmi gatto.
Prendiamo la sequenza del doppio omicidio di Marco e Ciro, i due guaglioni che sfidano il clan. I personaggi non si staccano dallo schermo. Restano lì, fissati per sempre dalla fotografia (intesa qui, come quell’insieme di tecnologie e tecniche che concorrono a realizzare un’inquadratura). Ricorrere alla macchina a mano e girare da sé, come Garrone ama fare, produce una visione egocentrica. E’ un’ipersoggettiva, dalla quale non ci è concesso di vedere oltre. L’hidden eye del voyeur – sineddoche per regista quale osservatore non visto – in questa sequenza, invece, denuncia di essere lì e di vedere da vicino quello che accade. E dice a noi spettatori “sono qua a testimone dei fatti per voi”. Ma io spettatore così vengo privato della mia ottica. Uso il termine ottica sia tecnicamente – l’ottica è l’obiettivo usato in macchina – sia semanticamente, lo spettatore con la sua sensibilità, formazione, cultura e tutte quelle componenti che determinano il suo proprio pensiero. Io spettatore, in quel momento, non sto “girando il film con la mia ottica”. Garrone gli ha imposto la sua lunghezza focale. Nel suo caso, poi, c’è da aggiungere, che non ha imposto solo il suo obiettivo ma, essendo egli stesso operatore alla macchina, ha imposto la sua visione, raddoppiando la soggettività del punto di vista. Per cui, registrare la realtà(?) così come a Garrone capita di fare impattando con i fatti che racconta, apparentemente azzera il registro stilistico e causa, invece, una casualità della forma e dell’estetica delle sue inquadrature che non acquistano mai il grado di morfema d’immagine.
L’estetica della macchina a mano è un movimento peristaltico e molto spesso è fraintesa quale sinonimo di azzeramento della macchina cinema. E’ l’arte povera. Un primitivo regresso. Mai, secondo me, abbaglio fu più grosso. Spesso è un ricorrere ai ripari quando non si sa come girare una scena… stile senza style… Pensiamo, tanto per restare con i piedi per aria, ai film di Bergman (il 30 luglio è un anno che il maestro svedese è morto). Immaginiamo se i suoi drammi fossero stati girati con la macchina a mano. Il filmico avrebbe sorpassato in presenza e comunicazione i personaggi e le parole delle sue sceneggiature e avremmo avuto come risultato un’inversione del suo ordine gerarchico: 1) profilmico, 2) filmico. Bergman spesso ricorre alla macchina fissa, questo sì vero azzeramento della macchina cinema, massima oggettivazione del riprendere. Con questo non voglio dire che i film macchina a mano siano tutti da buttare. Perbacco! No. E, poi, no. Laddove la tecnica si accoppia felicemente con il testo, il matrimonio forma/contenuto è sempre riuscito. La sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan direi che potrebbe zittire qualsiasi nemico di questo stile. Ma denunciare la presenza del filmico ricorrendo alla macchina a mano, rende tutto troppo soggettivo. Ipersoggettivo, appunto. Non azzera. Bensì raddoppia il processo filmico per imporlo, esagerando, quale significato. In Gomorra questo non accade. Gomorra non è un film, non è un movie, visto che in inglese la parola film indica la pellicola, il negativo, e la parola movie indica l’opera cinematografica. Anzi: Gomorra è un film, e questa volta, però, uso la parola in inglese. Gomorra, il film, non il movie, è un fonema, non è un morfema.

Alex Ander è operatore di ripresa e programmista/regista.e dirige la scuola di ripresa cinematografica SHOT

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.