Presentato alla 58esima edizione del festival di Berlino, Shine a light (2007) è l'omaggio di un grande cineasta a una band leggendaria, ma soprattutto un altro importante capitolo nella storia del rockumentary.
Martin Scorsese ama il rock e le rock band. Ama filmarle, essere dentro le loro performance, come ha fatto per gli Stones, o celebrarle attraverso le sue parole, come nell’intervista regalata a Julien Temple per Future is unwritten. Joe Strummer (2007). Il rock costituisce da sempre una fonte d’ispirazione per il suo cinema. Scorsese, al contrario di molti suoi colleghi americani che hanno raccontato la vita di rockstar attraverso film di finzione, preferisce lasciare che questa realtà si autorappresenti senza interventi, senza manipolazione, affidando alla forma oggettivizzante del documentario le emozioni dirette che sanno trasmettere i suoi protagonisti, catturati nel fuoco della loro esibizione.
Shine a light, rifiutando la mera celebrazione del mito-Rolling Stones, indaga il complesso rapporto tra realtà e rappresentazione ripercorrendo la storia della band attraverso le loro cadute, i loro eccessi oltre che i loro acuti. Il finale è una splendida sintesi stilistica: la macchina da presa pedina la band (concerto del 2006 al "Beacon Theatre" di New York) che saluta il suo pubblico alla fine del concerto e, attraverso un piano-sequenza la segue dal palco, lo spazio della rappresentazione, fino ad uscire nel back stage, luogo della vita reale. Il rapporto tra Scorsese e il rockumentary ha origini lontane. Nel 1969 supervisiona il montaggio di Woodstock tre giorni di pace, amore e musica di Wadleight, del quale sarà anche aiuto-regista, vivendo dall’interno la nascita del genere.
La storia del rockumentary (rock+documentary) comincia in quegli anni, precisamente nel 1967, anno del seminale Don't look back di D. A. Pennebaker, rockucumentarista fondamentale per lo sviluppo estetico del genere. Don't look back è il film che riprende il tour inglese di Bob Dylan del 1965. Con questo documento Pennebaker definisce le regole di un genere che da lì in avanti non dovrà più limitarsi a registrare l’evento ma, allargando il campo di ricerca, entrerà nei complessi meccanismi che animano i concerti rock intesi come eventi sociali, culturali e politici. Non un film-concerto o una biografia documentaria, in Don't look back Dylan sveste i panni del profeta di una generazione che sta preparando l’oceanico raduno delle illusioni, indossando quelli di un musicista alle prese con i manager, i giornalisti, il pubblico. Lo spazio della rappresentazione si estende fino a comprendere l’interazione tra Dylan e l’intero quadro nel quale è collocato.
Pennebaker continuerà la sua indagine con Monterey Pop (1968) nel quale filmerà l’evento di Monterey (il primo grande concerto-raduno) raccontando ciò che sta alla base del fenomeno e riprendendo, nei tre giorni dell’evento, le azioni degli Who e di Otis Redding, di Simon e Garfunkel e Janis Joplin, di Jimy Hendrix ma anche le reazioni dei loro ammiratori, “rubate” dalle macchine da presa nascoste tra loro. Se Monterey Pop mostrava il volto allegro di una generazione colorata, Gimme Shelter (1970) dei fratelli Maysles registra l’evento maledetto, il concerto gratuito degli Stones in cui persero la vita quattro ragazzi. Il candore spensierato del pubblico di Monterey è già un ricordo, Gimmie Shelter è tutto nel volto scuro di Mick Jagger il quale scopre, guardando le riprese, che uno dei ragazzi è stato ucciso da un Hell’s Angels, addetto al servizio d’ordine. L’afflato libero di una generazione si dissolve in un doloroso finale. Nel 1973 Pannebaker segue il tour di David Bowie, l’ultimo prima di abbandonare definitivamente Ziggly Stardust, alter-ego del periodo glam. In Ziggy Stardust and the Spider from Mars (1973), Pannebaker individua un motivo dialettico tra l’artista e il proprio simulacro. Lo spazio scenico si estende fino al camerino, dove Bowie compie la propria trasformazione. Acconciatura estrema e performance esasperata per l’addio definitivo a Ziggy.
Il rockumentary nasce alla fine degli anni Sessanta perchè trova in quel momento storico le condizioni che ne favoriscono lo sviluppo. La registrazione di un evento musicale consentiva di osservare da vicino i grandi sconvolgimenti sociali che il Sessantotto si proponeva di compiere. Essere nell’evento, raccontarne i risvolti, ampliarne i significati, intercettare le istanze di una generazione che vedeva nella musica non solo la colonna sonora dei propri ideali ma la spinta creativa che avrebbe spalancato grandi orizzonti, era una necessità sentita da una schiera di registi formatasi in un ambito culturale fatto di fertili riflessioni teoriche sul rapporto tra cinema e reale. In quegli anni, il New American Cinema anteponeva all’artificio hollywoodiano un cinema realistico, indipendente e sotterraneo. New York era la fucina di un nuovo modo di pensare il cinema. Inoltre, l’avvento di supporti tecnologici più leggeri e maneggevoli consentiva di poter essere dentro la realtà e catturare il fatto nel momento stesso in cui accade.
Alla metà degli anni Settanta il punk sconvolgerà tutto. Addio ai buoni ideali e agli orizzonti di speranza. Arriva l’ondata rabbiosa e nichilista di una generazione che impone un linguaggio diretto e antiretorico, dalla violenta tensione iconoclasta. New York e Londra sono le capitali, gli epicentri di un terremoto culturale e sociale il cui impatto è rilevabile ai giorni nostri. Cambia anche il teatro delle performance: non più i grandi spazi, bensì locali bui e fumosi ospitano tribù scatenate che dopo i concerti rovesciano nelle strade la loro rabbia contro l'establishment. Punk rock movie del 1976 di Don Letts e Punk in London del 1977 di Wolfgang Buld rivelano un’estetica in piena filosofia punk: le inquadrature mosse del Super8, sgranate e sporche, accentuano uno stile volutamente sgrammaticato definendo un’estetica anarchica. Emergono nuovi registi come Julien Temple, che si occupa dei Sex Pistols con The Great Rock’n’Roll Swindle (1980), o Lech Kowalsky che filma le interviste alla comunità punk. L’immagine tossica di Sid Vicious, intervistato con la Spugen da Kowalsky, prefigura la sua morte, il simbolo della fine del movimento.
Negli anni Ottanta l’avvento del videoclip musicale sposta gli orientamenti produttivi. Si tende a produrre film-concerto dal taglio celebrativo in cui il sovraccarico estetico toglierà verità al prodotto. La musica pop è più appetibile. Il mercato musicale riconosce un pubblico nuovo, deideologgizzato, che aggiorna i propri gusti sui vacui tempi del riflusso. Il rock ha compiuto mezzo secolo. La sua importanza sociale e culturale è ormai un fatto storico c
ompiuto. Oggi il rockumentary tende, con occhio retrospettivo, a raccontare le band musicali usandole come strumenti ideali per interpretare lo spirito di un’epoca. Nel 2004 The end of the century, documentario sui Ramones, è la chiave per accedere alla New York in fermento degli anni Settanta. The filth and the Fury (1999), torna sui tumulti londinesi attraverso il fenomeno Sex Pistols del redivivo Julien Temple, il quale renderà omaggio anche all’amico scomparso Joe Strummer con il documentario Future is unwritten. Joe Strummer (2007), nel quale compaiono diversi personaggi dello star system americano e molti amici del front man dei Clash che, attraverso racconti e aneddoti, ricompongono il quadro di un'epoca. Il film, evitando l’accento agiografico, descrive il profilo fragile di un uomo alle prese con la difficile gestione di un successo il cui peso è stato a volte insostenibile.
Un tema molto interessante! Mi chiedevo se anche il film “IO NON CI SONO” facesse parte di questo genere?
Liquidare così gli anni 80 mi sembra una grossa inesattezza. Questo resta un decennio in cui sono state realizzate opere seminali per il genere in questione.
Il termine “rockumentary” fu coniato da Rob Reiner esattamente nel 1984 nella sua opera prima THIS IS SPINAL TAP, mockumentary-capolavoro, che codifica e battezza ufficialmente il genere.
Altre due opere cardine della storia del cinema rock sono due film della documentarista Penelope Spheeris: The Decline of Western Civilization (1981) e The Decline of Western Civilization Part II: The Metal Years (1988). Jonathan Demme con STOP MAKING SENSE innova il linguaggio del concert movie “attraverso” i Talking Heads. Anche RATLLE AND HUM sugli U2 di Phil Joanou, dello stesso anno, ebbe la sua rilevanza.
In generale, comunque, il cinema rock negli anni 80 ha avuto un momento importante. … e poi, non capisco perchè, continua ad essere un periodo così bistrattato!
oooooo
Se ti riferisci a “Io non sono qui” di Haynes direi di no, è un biopic su una rock star. Interessante per una serie di scelte ma non un documentario rock.
Il passaggio sugli anni 8o patisce in effetti maggiormente il carattere sintetico dell’articolo. Ma a parte Demme confermo nella sostanza ciò che ho scritto a proposito dei film celebrativi: Il citato Ruttle & hum (al quale aggiungo “101”, depeche mode) per il suo tono ridondante, lo colloco proprio tra questi.
Grazie per i commenti.
And.