La violenza atroce, quotidiana e segreta, in particolar modo contro le donne, è il tema del film Racconti da Stoccolma, vincitore del premio Amnesty International nella sezione Panorama del 57º Festival di Berlino. Ed è proprio la Svezia, modello di civile parità e libertà conquistata da decenni, il posto dove si svolgono i tre racconti di diverse violenze quotidiane, che ci fanno capire che questo fenomeno, arcaico e distruttivo, è una sorta di rovescio della medaglia della nostra civiltà: sono tutte storie basate su vicende reali che potrebbero accadere ovunque. Ci fanno pensare, per esempio, all’attuale caso di un padre austriaco che per anni ha abusato sulla propria figlia con cui ha concepito sette figli o a quello di Hina Saleem, immigrata pakistana in Italia, che amava un ragazzo italiano ed è stata ammazzata dal padre e due zii nell’agosto 2006.
Il regista Anders Nilsson (Zero Tolerance, The Third Wave) ed il suo produttore Joakim Hansson hanno scelto un approccio quasi didattico al tema: raccontano la violenza dal punto di vista di vittime che hanno scelto di combattere per ribaltare lo stato delle cose e, in modi diversi, riescono infine a trovare una via di scampo. Questo è il caso dell’omosessuale Aram (Reuben Sallmander), proprietario di un locale notturno alla moda, che deve subire l’aggressione e una serie di pesanti minacce da una gang di malviventi, o la storia della giovane Leyla (Oldoz Javidi) che è cresciuta con la sorella Nina (Bahar Pars) in una famiglia immigrata mediorientale dal rigido codice morale e religioso: appena si scopre che Nina ha un ragazzo, i genitori e gli zii decidono che il suo destino è segnato. Perfino la stessa madre (Mina Azarian) collabora per “restituire l’onore della famiglia” mentre la sola Leyla proverà a opporsi con tutte le sue forze al volere del clan famigliare, mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Senza di lei, così ci dimostra il film, l’omicidio che infine viene ammesso in Germania e presentato dalla famiglia come “suicidio” non sarebbe mai stato portato alla luce: i mezzi dello stato svedese e della polizia europea (in questo caso quella tedesca-svedese) ci sono ma ci vogliono il coraggio civile di testimoni diretti, se necessario dei propri famigliari, per evitare casi del genere.
La storia di un’altra eroina è quella della giornalista svedese Carina (Lia Boysen), sposata e madre di due figli, che viene regolarmente picchiata e umiliata dal marito Hakan (Peter Engman), collega sul lavoro e geloso del suo successo. Dopo un lungo processo di presa di coscienza, Carina denuncia il marito ed usa i propri strumenti professionali per aiutare non solo se stessa, ma anche tutte le altre donne che si trovano in situazioni simili. La sua storia fa vedere le difficoltà anche di una donna colta e indipendente ad affrontare l’esperienza devastante subita sulla propria pelle: Carina, “giornalista di successo, ma donna mancante di autostima”, per parafrasare la sorella di lei, deve fare i conti con il proprio matrimonio, ma anche scontrarsi con l’indifferenza e l’ostilità degli amici e colleghi, persone da cui uno si aspetterebbe che dimostrassero più sensibilità e solidarietà.
Racconti da Stoccolma forse non è un film straordinario dal punto di vista cinematografico, ma è raccontato bene, anche grazie agli attori bravi (che a parte di Bibi Anderson sono tutti poco conosciuti). La vera forza dei tre drammi intrecciati è però nello smascheramento di alcuni luoghi comuni sulla violenza. Spesso, come ci dimostrano le storie di Leyla e Carina, sono proprio i padri, i fratelli e i parenti gli aggressori inaspettati: tra tutte le donne uccise in Italia, in media sette su dieci trovano la morte proprio per mano di un famigliare o di un partner (indagine Eures-Ansa 2006). La cosa ancora più spiazzante è che nel 92,5% dei casi le violenze domestiche non vengono denunciate e che soltanto il 18,2% delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale in ambito famigliare la considerano un reato (indagine Istat del febbraio 2007). La violenza in famiglia, quindi, è sempre un tabù fortissimo. Conferma il regista Nilsson: “Quello che più spaventa la gente è una minaccia che proviene dalla propria famiglia, dai propri genitori, dalle persone amate; da coloro, insomma, da cui ti aspetteresti al contrario un sostegno fondamentale”. Infatti, prima che la protagonista della terza storia, Carina, giornalista di successo ma moglie umiliata, trovi la forza e il coraggio di denunciare il proprio marito, ci vogliono anni di sofferenza e di silenzio. La violenza accade e si perpetua anche perchè lo permettiamo. La responsabilità di questo, ci ricorda il film, non è esclusivamente del violento ma anche del suo ambiente, vuol dire di tutti noi possibili vittime, vicini e testimoni.
Il tema del “delitto d’onore”, rappresentato nel film della storia di Leyla, apre ancora un’altra dimensione attuale del tema: pratiche crudeli ed arcaiche ammesse in una Stoccolma dove la convivenza multietnica sembra funzionare bene suscitano delle domande riguardo alla politica d’immigrazione e alla richiesta di “tolleranza zero” nei confronti degli stranieri (richiesta anche dalla stessa destra italiana, per esempio del nuovo sindaco di Roma nell’ultima campagna elettorale). Racconti da Stoccolma, invece, non dà delle risposte semplici: la famiglia di Leyla è cristiana e integrata abbastanza bene, è una famiglia di lavoratori benestanti, tutti parlano bene lo svedese, le figlie frequentano il liceo e vestono come le coetanee. Il film indaga sul delitto d’onore al di là di un background religioso o culturale: “Questo fenomeno appartiene ad ogni sorta d’ambiente e non è certo legato ad una religione o ad una nazione precisa”, sottolinea il regista.
Sia che sia delirio individuale o che sia un delitto che nasce da un fanatismo collettivo – la violenza richiede sempre una risposta attiva da parte di tutti coloro che vi vengono in contatto.