Il cinema italiano mette in scena gli italiani di oggi e lo fa con ironia, tornando alla commedia per fotografare il panorama sociale del Bel Paese. Lo ha fatto Virzì raccontando il precariato dei call center, lo fa Gianni Zanasi in questo film “malin-comico” che, dietro l’apparente leggerezza, affronta temi importanti: dalla destrutturazione della famiglia, all’asfissia della provincia stretta tra non sense esistenziale e crisi del modello economico basato sulla piccola impresa. Dalla disillusione dei poco più che trentenni – in costante ricerca di sé o semplicemente in fuga da modelli nei quali è diventato impossibile identificarsi – al rapporto fra città e provincia, fra solitudine e ricerca di un microcosmo affettivo al quale appartenere.
Zanasi conferma la qualità dei suoi esordi (Nella mischia, Fuori di me, A domani) nello scuotere l’immaginario nostrano con gli ingranaggi perfetti della commedia provinciale, fra nevrosi, amori falliti e personaggi bizzarri, la cui psicologia è sempre raccontata con una leggerezza che non scade mai in superficialità. Questo tocco irriverente di Zanasi permette allo spettatore di ridere del buffo Stefano Nardini (Valerio Mastrandrea): musicista di uno “scalcinato” gruppo rock – scappato dalla provincia emiliana per sfondare nella capitale, in crisi di identità lavorativa e personale (il film si apre con lui che scopre di essere tradito dalla fidanzata), decide di tornare alla natìa Rimini in cerca dell’atavico abbraccio della famiglia amata e rifiutata al tempo stesso. Ad accoglierlo le problematiche di sempre e quel sottile senso di nausea dell’ambiente provinciale dal quale era scappato, conditi dagli scricchiolanti bilanci esistenziali dei membri della famiglia. Il fratello Alberto (Giuseppe Battiston) alle prese con il fallimento del proprio matrimonio, il peso dell’azienda di ciliegie sciroppate sull’orlo del disastro finanziario e un armadio pieno di psicofarmaci a lenire ansia e frustrazione. La sorella Michela (Anita Caprioli), che ha lasciato l’università per lavorare con i delfini, ha una vita privata da sempre a tal punto estranea a Stefano che questi è convinto sia lesbica, pur senza aver mai appurato tale sospetto. Il padre (Teco Celio), in pensionamento anticipato, gioca a golf tutto il giorno e la madre (Gisella Burinato) si dedica a terapie di gruppo pseudo-sciamaniche per sedare sensi di colpa e infelicità. Il “figliol prodigo”, riaccolto con affetto imbarazzato, viene suo malgrado coinvolto subito nelle dinamiche familiari e nei tentativi (tutti vani) dei fratelli di salvare l’azienda.
A condire questo pamphlet della disperazione, Zanasi aggiunge il tono surreale e i riti della provincia: il bar, le giostre, le sbronze, i suicidi tentati e quelli veri, a suscitare reazioni sulla superficie liscia del perbenismo, increspando con stimoli insensati la lastra del vuoto assoluto di senso, ironicamente rappresentato da un indicatore di velocità che misura persino i passi stentati di una vecchia sul marciapiede. Sullo sfondo, una Rimini di villette abitate dalla noia del benessere, di quella provincia del nord che Zanasi conosce bene visto che, come il suo personaggio-alter ego, anche lui è scappato da lì per approdare a Roma. Se l’ironia di Virzì è amara, quella di Zanasi è “dolce” come l’Agnese di Ivan Graziani scelta come colonna sonora.
E’ “un’ironia buonista” all’italiana, quella per la quale, alla fine, è proprio il padre distratto, che fa finta di non sapere niente, a salvare l’azienda oltreché a rispedire il figlio a Roma e a far riavvicinare i fratelli in difficoltà. Lo stesso “buonismo” salva la pur dilaniata famiglia come universo affettivo imprescindibile: scelta criticabile e probabilmente figlia di quel provincialismo tanto esecrato dal film. Non per questo si applaude l’opera di Zanasi ma certo per l’impegno nel raccontare l’Italia disastrata, le problematiche dei giovani, le paure del quotidiano che troppo cinema e letteratura vorrebbero farci dimenticare nell’evasione e che invece questo film pone sotto la lente d’ingrandimento. E un applauso merita tutto il cast e una regia originale e scevra di pretese che mostra lo squallore di ambienti anonimi, di autostrade che nulla hanno di poetico se non l’intrinseca mediocrità che guarda con lucida ironia all’Italiano di oggi, meno ingenuo ma più disperato forse, dei classici personaggi della “commedia all’italiana”.