A Titov Veles si muore di molte morti — tutte lente, ugualmente dolorose: come la polvere nera di piombo che ricopre i campi o la solitudine che invade le vecchie, fatiscenti case di pietra.
Un lungo, caldissimo applauso ha accolto Jas sum od Titov Veles, lungometraggio onirico e amaro della macedone Teona Strugar Mitevska, presentato alla Berlinale nella sezione Panorama.
All’ombra dell’unica, velenosa fabbrica di una misera cittadina rurale della Macedonia, Afrodita (Labina Mitevska, sorella della regista e protagonista del Leone d’Oro 1994 di Milcho Manchevski, Prima della pioggia) sogna, e fra i sogni accudisce le due problematiche sorelle maggiori.
Le tre ragazze, orfane di entrambi i genitori e prive di appoggio o sostegno, vivono insieme, abbandonate a se stesse in un microcosmo socio-culturale dove una donna sola non ha quasi dignità umana.
Slavica, tossicodipendente da otto anni, sta per sposare un uomo più anziano di lei, un ricco parvenu che sembra poterla salvare da Titov Veles e dare un senso (anche solo materialistico) alla sua vita; Sapho, che attraverso i molti uomini della sua vita ha cercato affetto o forse soltanto una via di fuga, ha invece in mano il visto per lasciare il paese.
La tragedia di Afrodita, muta per scelta, fragile e inadatta alla brutalità del reale, si consuma in un lasso di tempo brevissimo, quando al calore di una felicità quasi uterina si sostituisce, inaspettatamente, il vuoto. Per lei, che ha cullato da sempre l’idea di un nido nel quale prendersi cura degli altri, l’abbandono è l’annullamento, la sottrazione della volontà di vivere.
Perché quando la vicinanza somiglia troppo spesso alla mercificazione degli affetti e nei rapporti tra uomo e donna si specchia l’inesorabile legge della prevaricazione, non c’è spazio per i sentimenti: non c’è spazio per chi è inabile alla vita.