Ancora una volta il dolore, anzi, per dirla in modo chiaro l’elaborazione del lutto al centro di un film che ha come protagonista Nanni Moretti, il precedente immediato era La stanza del figlio. Non se ne abbia a male Antonello Grimaldi, ma è quasi inevitabile, una volta scelto come cosceneggiatore e principale interprete della propria opera l’Autarchico del cinema italiano, che l’attenzione maggiore andasse a lui e per una ragione molto semplice: Moretti ogni volta che compare sugli schermi (da quelli cinematografici a quelli televisivi) compone un ulteriore tassello della sua autobiografia. La differenza principale col precedente è che in questa circostanza il dolore insieme ad uno spazio privato (quello della famiglia) ne ha uno (il principale) pubblico, esposto agli occhi di tutti.
Pietro Paladini, dirigente di una importante azienda dell’audiovisivo, subisce la morte improvvisa della moglie Lara, mentre lui sulla spiaggia col fratello (Alessandro Gasman) si getta in mare per salvare un’altra donna (Isabella Ferrari). Così una volta tornato in città, dopo le vacanze estive, si ritrova da solo con la figlia (Blu Yoshimi), l’accompagna a scuola e decide di rimanere seduto su una panchina di fronte l’edificio scolastico ad attendere l’uscita della bambina. Pietro si sente responsabile di quanto accaduto, non era lì al momento del bisogno, ovviamente non ha delle responsabilità dirette, però come non cogliere quel delicato gesto della figlia che più volte gli nega di dargli la mano se non come un’accusa indiretta che scava un bruciante senso di colpa? Quindi mette da parte gli affari e tutto il resto e si ferma su una panchina per cercare di mettere ordine al proprio mondo interiore, di frenare il caos che l’ha travolto con la calma.
Da lui arrivano parenti, amici e colleghi col desiderio di confessare le loro vite: Pietro/Moretti li ascolta e quasi sempre finisce i colloqui con un abbraccio. La stessa cosa capita con un ragazza che nel giardino porta a passeggio il cane: non si parlano mai, si conoscono solo perché stanno nello stesso posto, ma lei diviene testimone di quanto accade a quest’uomo, ne coglie, senza l’ausilio della parole, la carica di umanità, tanto che alla prima occasione buona lo abbraccia anche lei. Ugualmente accade con un ragazzo down con cui il protagonista “stringe un abbraccio” metaforico, entra in contatto con lui attraverso le luci dell’antifurto, queste vengono accese e spente con un telecomando a distanza da Pietro e il ragazzo alza il braccio felice in direzione dell’auto. Sembra dire il regista, come anche Sandro Veronesi autore del romanzo da cui è tratto il film, che il vuoto provocato dalla morte si colma ricostruendo un mondo di relazioni intorno a sé che sono di natura fisica e affettiva: questa è la via per rendere ancora possibile e credibile l’esistenza. C’è poi la lezione della piccola Claudia (Blu Yoshimi) che frequenta la quinta elementare: in classe ha imparato che esistono parole e frasi reversibili e altre irreversibili. Nel primo caso la maestra indica il palindromo, quel verso che rimane identico anche letto al contrario, l’esempio è: “ I topi non avevano nipoti”. Nel secondo ci sono quelle azioni e concetti che non permettono di tornare indietro. Claudia indica dunque al padre che loro si trovano in quest’ultima situazione: lui è stato gentile a rimanere ad aspettarla sotto la scuola, ma per quanto è accaduto c’è poco fare, la vita deve riprendere. Insomma è la proposta di un’etica centrata sull’uomo di fronte alla morte: in tempi in cui si discute della rilevanza dei valori laici ecco a voi una risposta su un tema alquanto spinoso che potrebbe trovare accoglienza anche da un punto di vista religioso, almeno considerandola buona e utile, senza per questo ritenerla sufficiente.
Gli sceneggiatori avevano il problema di portare in immagini la voce interiore del protagonista del romanzo, potevano imboccare la strada di un voce off e invece hanno puntato le loro carte sulla forza dell’attore: Nanni Moretti riconoscibile facilmente dal pubblico nelle sue diverse espressioni come nel suo rigore morale, addolcito da una migliore considerazione di se stesso e delle persone che lo circondano sullo schermo. Tuttavia qualche perplessità sulla costruzione drammaturgica resta. In particolare si pensi all’improvvisa scena di sesso con la Ferrari che non sorprende gli spettatori, che anzi l’attendono visto che è stata un elemento con cui Caos calmo si è fatto pubblicità; la narrazione però si presenta con uno spazio implicito eccessivo, non emerge quella dimensione di ambiguità sessuale che nel romanzo di Veronesi è invece presente sin dal salvataggio in mare. La regia, pur considerando la difficoltà di una storia che non evolve in eventi, non riesce a ridare con forza lo spessore emotivo di quanto avviene se non insufflando le immagini di musica coinvolgente. Bravi gli attori che girano intorno a Pietro/Moretti che in qualche modo ricostruiscono uno schema tipico del cinema morettiano, quello degli amici e conoscenti che vanno da lui per parlare, solo che questa volta ricevono in cambio degli abbracci.