In tempi di marketing sfrenato, sapientemente propagato attraverso i molteplici mezzi di comunicazione disponibili, una volta ottenuto (non proprio spontaneamente) l’aurea di “caso cinematografico”, diventa facile nonché poco cauto parlare di prodotto innovativo che rompe con la tradizione e apre a nuove frontiere. Tutto ciò diviene ancora più facile quando all’origine del film qui discusso c’è J. J. Abrams, che delega regia e sceneggiatura, ma ne mantiene la supervisione. Un nome oramai divenuto sinonimo di originalità e innovazione grazie ad alcuni prodotti seriali dell’industria culturale statunitense, uno su tutti: Lost.
A dispetto della massiccia e furba strategia pubblicitaria utilizzata e giunti al banco di prova della visione, Cloverfield sembra in parte riuscire nel suo intento.
L’horror e il catastrofico sono tra tutti i generi cinematografici quelli che più spesso hanno saputo incarnare incertezze e paure, ansie e smarrimenti di una certa epoca, metabolizzandoli nella rappresentazione idealtipica di una qualche minaccia: virus, alieno, mostro o cataclisma che sia. Se come genere il “disaster movie” è vecchio quasi quanto il cinema, riuscire a mettere in scena qualcosa di originale non è impresa facile: i topoi del genere diventano ripetitivi, le dinamiche narrative consunte e abusate. Solo la massiccia utilizzazione degli effetti speciali sorta negli anni ’90 (Indipendance Day ne è l’emblema) è riuscita a dare una scossa considerevole al genere, riuscendo a mostrare ciò che prima era impensabile. Ma la meraviglia dà subito il fianco alla noia se l’innovazione tecnica resta fine a se stessa, ecco che l’espediente diviene pretesto per la messa in scena e la fascinazione si sgretola nel giro di qualche stagione cinematografica.
L’aspetto più interessante di Cloverfield, il suo lato più riuscito, non risiede tanto in ciò che mette in scena, ma nelle tecniche e negli accorgimenti utilizzati per la messa in scena, non in ciò che rappresenta, ma negli espedienti della rappresentazione, scalzando le facili soluzioni computerizzate. La terribile creatura che semina panico e distruzione è troppo simile a tanti altri Godzilla sparsi nella storia del cinema. Le creaturine partorite dal lucertolone ricordano fin troppo videogiochi di successo come Half Life per essere originali. Persino il luogo della catastrofe, New York (anzi Manhattan), come isola/metafora della civiltà accerchiata e senza via di scampo (ed i topi nella scena della metropolitana ne diventano una metafora fin troppo evidente), risulta più che abusato, anche se mantiene pur sempre una sua suggestività.
Allora dove risiede il merito di Cloverfield, il suo discostarsi dal mainstream catastrofico? Nell’aver saputo accettare la sfida messa in atto dal reale, nell’averlo metabolizzato e utilizzato all’interno della finzione. Cloverfield è un film che non ha al suo interno qualche rimando all’11 settembre, esso è intriso fino al midollo di quella data. Come qualcuno ha sostenuto, quelle torri che cadono in diretta, attraverso lo schermo e sotto gli occhi di mezzo mondo, diventano il “crollo dell’immaginario” occidentale. La realtà diviene più spettacolare della finzione, ma anche più originale e inedita. Nell’arco di una mattinata la verità fattuale ha scalzato anni di rappresentazioni hollywoodiane relegandole a fantasticherie vecchie e obsolete.
Di fronte a uno spettatore smaliziato e sempre più esigente, dinanzi a un reale che si è messo a competere con la finzione, Cloverfield smonta i meccanismi del terrore della contemporaneità per appropriarsene. Analizzando i dispositivi e i congegni dell’orrore del reale non arriva a eccellere in inventiva tanto da superarli, ma ne fa proprie le dinamiche per guadagnarsi quell’immedesimazione dello spettatore che può scaturire solo quando riconosce la familiarità degli eventi. La camera a mano e in soggettiva, presente in tutta la durata del film, non solo crea identificazione, ma rimanda a quello sguardo compartecipativo e voyeur di molti filmati documentativi di cui quotidianamente ci nutriamo. Non c’è l’occhio onnipresente del cinema che scandaglia il mostro sotto ogni angolazione, ma lo sguardo imperfetto, vago e manchevole di dettagli delle vittime in fuga. Il fumo che avanza tra la folla in panico e i fogli di carta che svolazzano in seguito al crollo degli edifici delle prime scene sarebbero dei dettagli passati inosservati se non ci fosse stato un precedente ben più reale, vivo nel ricordo di ciascun spettatore. La stessa entità che terrorizza Manhattan si palesa solo verso la metà del film, riproducendo quel senso di impotenza e incertezza verso lei quali le varie “dirette” sui luoghi della tragedia ci hanno abituato. E che il film si concluda senza spiegazione alcuna sulla provenienza o sorte di quel mostro venuto chissà da dove, sembra suggellare quell’incarnazione dello spirito del tempo di cui parlavamo.
Che il protagonista non molli mai la sua videocamera, neanche di fronte al peggio, richiede forse un eccessivo sforzo nella sospensione dell’incredulità e l’immedesimazione a tratti ne risente in un film che comunque lascia tramortiti sulla propria poltrona. Dove Cloverfield pecca, o meglio non osa, è nella linea narrativa dei personaggi e nella loro caratterizzazione poco realista. La sottotrama (anche se sapientemente spiegata e messa in scena attraverso l’espediente del nastro riutilizzato) appare convenzionale e scontata. Una volta riusciti a trovare il geniale espediente che permette di poter fare dei salti temporali all’interno della narrazione (pur in presenza di un ritrovamento video), si ha l’impressione che quell’intuizione rimanga poco sfruttata in confronto alle sue più ampie potenzialità. I meccanismi più riusciti del film, realismo e immedesimazione, stridono con dei personaggi a volte sopra le righe, che si vorrebbero più disperati e sperduti. È come se i creatori si fossero autocensurati per paura di essere accusati di sciacallaggio e saccheggio nei confronti di un accaduto ancora troppo vivo nel ricordo. Ma si sa, ad Hollywood piace sempre il politacally correct.
complimenti x la recensione! molto acuta e sottile
Complimenti per l’articolo, oltre che acuto è perfettamente esposto 🙂
bravissimo continua cosi.
Ottimo articolo:acuto, coinvolgente ed ottimamente esposto!!Complimenti in attesa del prossimo.
Ho trovato la recensione di un’elevata caratura, da essa emerge infatti un occhio attento ed una discreta dimestichezza nel trasformare le sensazioni trasmesse dalla pellicola in testo.
Saluto tutti quelli che mi conoscono.
Io non credo che il film nasconda tante intenzioni , se non quella alquanto becera , di cavalcare l’onda del successo di Lost , e sfruttarlo commercialmente.
Il film mi è sembrato senza cuore costruito a tavolino, anche se ad arte , dosando benissimo metafore ed effetti e cercando di far breccia nelle emozioni con dei chiari richiami a delle immagini che resteranno per sempre in ognuno di noi ( mi riferisco a quelle dell 11 settembre)..
a ‘ndo caz sill’arcupiete quess? je fregn a ssa!
ottima recenzione…al contrario del film…che fa veramente cacare…
Tuo padre sarà orgoglioso di te…..
Saluti da Felindo..a Giò….
Il film l’ho visto in Tv e certtamente non è il luogo ideale, per un film che si avvale di un’ottimo ed efficace studio degli effetti sonori. Il cinema si guarda al cinema!
Bravo, Giò!