Cosa distingue i film per bambini da quelli per un pubblico adulto? E chi sono i bambini e chi gli adulti? Domande apparentemente banali ma anche possibili chiavi per aprire ai recinti delle definizioni, gli spazi infiniti dell’anima.
Interrogativi che il film di Helm nasconde in una trama quasi banale e in tempi narrativi lenti, poco adatti al fantasy e/o alla commedia.
Mr Magorium alias Dustin Hoffman è un 243enne proprietario di una bottega di giocattoli, della quale è direttrice la sua assistente Mohoney (Natalie Portman). Burattini animati, palle che rimbalzano, giocattoli che fanno i capricci, animaletti di peluche che chiedono abbracci: il negozio di Magorium è tutto questo e molto di più. E’ un luogo-non-luogo misterioso, dove l’impossibile prende forma.
Quando Magorium decide di affidare la sua bottega a Mohoney, i giocattoli si ribellano perdendo tutta la loro magia. Per fortuna il nuovo contabile del negozio e il piccolo Eric, un cliente affezionato, aiuteranno la ragazza a riportare la bottega al suo antico splendore. Come? Si potrebbe dire con una iniezione di fiducia nelle proprie capacità o con la magia dell’amore.
A rendere il film speciale è forse proprio la lentezza con la quale il regista ci fa conoscere il curioso Magorium; all’inizio è quasi irritante l’improbabilità di questa figura e del mondo che lo circonda, a tal punto che viene spontaneo guardarlo con la condiscendenza riservata ai folli. O semplicemente con gli occhi di Henry, il contabile o mutante (come lo chiama Magorium), per il quale la famosa bottega è “solo” un negozio di giocattoli in mano ad un vecchio squilibrato: lo sguardo disincantato dell’adulto per il quale la dimensione infinita del gioco è irrimediabilmente sostituita dal tempo limitato e nevrotico del lavoro.
Ma poi qualcosa cambia e, come trascinati in questo mondo dove non ci sono regole, cominciamo ad amare il bicentenario lunatico e giocoso, dimenticandoci persino che si tratta di Dustin Hoffmann: è Magorium, autentico come un sorriso infantile.
Ci sono corde che tornano a vibrare in ogni spettatore, come nel “mutante” Henry, colpito dalle parole di Mohoney, la quale stanca del suo cinismo, gli ricorda che se il mondo è quel libro arcinoto di cui tutti ci lamentiamo, è proprio perché esistono persone come lui (noi?…), per le quali una bottega è “solo” un negozio, un giocattolo “solo” un oggetto, e il mondo sensibile “solo” materia inanimata! Un essere umano “solo” una persona in carne e ossa e non un mistero da esplorare, una magia da realizzare.
E poi Magorium col suo irriverente rifiuto di ogni regola – a partire da quelle burocratiche per finire con quelle mediche ed esistenziali – rompe le catene e quasi non sentiamo più il loro peso, ci riporta all’infanzia, al potenziale infinito racchiuso nell’istante in cui dal niente nasceva un gioco nel quale perdersi. Basta una busta di plastica piena di palline d’aria da schiacciare per inventare una pista da ballo; delle stelle dipinte in una stanza per immergersi nel cosmo, come astronauti, liberi dal pensiero. Un’enorme palla a spezzare i limiti del possibile, un banale cubo di legno a ricordarci che la mediocrità non è in ciò che ci circonda ma in noi stessi. I limiti non sono più reali di una magia: si tratta sempre e soltanto di proiezioni di pensieri, paure, muri e stanze create dalla nostra immaginazione.
Come non amare un film che ci ricorda come la fantasia dilati l’orizzonte, il gioco riaccenda gli occhi di vita e la spensieratezza dell’infanzia sia ancora in noi, se solo la lasciassimo libera di correre a perdifiato, in quella “bottega delle magie” che è la nostra anima?
Impossibile non amare Magorium-Hoffman, confusi a tal punto da confonderli in un gioco mediatico attraverso il quale scopriamo, insieme a una Mohoney-Portman altrettanto calata nel ruolo, che “il mago” non è una persona speciale, bensì ognuno di noi quando decide di liberare l’incantesimo racchiuso nell’IO negato. Dalle paure. Dai doveri. Dalla quotidianità. Dalle aspettative. Dal disamore. O forse solo dall’oblio di sé; quel bimbo sognante e libero per il quale il gioco è l’unica dimensione possibile del vivere.
Allora ciò che fa di un film, una pellicola per bambini è forse proprio quella polvere di stelle, quel volo della fantasia che solleva le menti degli spettatori dal tempo e dalla poltrona per traghettarli nel mondo dimenticato della magia. Nell’universo del possibile, laddove non ci sono altre regole all’infuori di quelle dettate dalla fantasia, dal desiderio, dai sogni.