Si accusano spesso i registi italiani di guardare il proprio ombelico, di essere troppo ripiegati su se stessi. Non è il caso di Wilma Labate (Un altro mondo è possibile, Lettere dalla Palestina, La mia generazione, Domenica) e in particolare non è il caso del suo ultimo film, Signorinaeffe, con cui la regista si volta indietro a ventisette anni fa, per recuperare la memoria di un episodio fondamentale della nostra storia, che rischia di andar perduto. Il 1980 è stato, infatti, il momento che ha segnato l’inizio della fine: la fine del lavoro garantito e l’inizio della “flessibilità”, la fine del ruolo dei sindacati e della protesta collettiva e l’inizio della ribellione individuale (vedi le banlieu parigine). Nonostante in Italia siano circa quindici milioni (su un totale di sessanta milioni di abitanti) – che con le famiglie raddoppiano almeno – nessuno parla degli operai, nè dà loro voce, come se non esistessero più: certo hanno più appeal le veline, i calciatori, o i concorrenti dei vari Amici/Grandefratello o i “tronisti”. Giovani, di bella presenza, alla moda, sempre in tiro e perfettamente truccati e pettinati, che fanno soldi a palate andando in tv o facendo presenza nelle discoteche… Perché dare come modello di vita l’operaio che si alza all’alba, che fatica otto ore al giorno in un lavoro ripetitivo, in un ambiente rumoroso, sporco, con l’aria impregnata d’olio, che porta pochi soldi a casa, ma che è anche parte fondante dell’economia? Si parla di lui solo per i drammatici episodi delle morti sul lavoro e in questo ultimo mese i riflettori sono stati puntati su Torino, sulla Thyssen, sulle fabbriche. I media sono tornati a parlare di operai, delle industrie, degli infortuni sul lavoro, della mancanza di rispetto della sicurezza e della vita umana da parte dei padroni in nome del profitto. E non è un caso che per un film come Signorinaeffe che ha gli operai come protagonisti, ci siano voluti anni per trovare i finanziamenti.
Il mondo del lavoro com’è oggi è iniziato in quell’autunno del 1980 – sembra dirci la Labate e con lei concordano storici e politici – con i 35 giorni di lotta in Fiat (tra il settembre e l’ottobre del 1980) che decretarono un cambiamento epocale nella politica operaia del nostro paese e la fine di un’epoca. Quando i dirigenti della Fiat decisero di mandare in cassa integrazione venticinquemila operai, la fabbrica fu occupata. Per la prima volta i colletti bianchi sfilarono – in quarantamila per le strade di Torino – per la riapertura della fabbrica e così facendo inconsapevolmente bloccarono la trattativa in corso tra Fiat/sindacati e governo, decretando la vittoria della borghesia e cambiando definitivamente gli equilibri tra industria e lavoratori.
Diciamo subito, per scansare ogni equivoco o critica in proposito, che Signorinaeffe non è un documentario, anche se usa alcune immagini (commoventi e bellissime) di repertorio, ma è fiction (e con fiction intendo il genere cinematografico e non il termine che ormai viene utilizzato nell’accezione più ristretta di genere televisivo) nel miglior senso del termine. Signorinaeffe è un melodramma operaio, in cui la storia d’amore e passione tra Sergio e Emma sono lo specchio tramite cui si dà maggior luce e risalto alla Storia (con la S maiuscola) di quei giorni: i conflitti tra gli operai (scioperanti/crumiri), gli studenti e gli operai uniti nelle manifestazioni di piazza, la fabbrica “mamma” (con le befane organizzate, i regali per i ragazzini e le colonie pagate)… C’è una buona descrizione della vita degli operai di allora che vivevano in una discreta agiatezza: quanto sono cambiati i tempi oggi? Si rende il sapore di un’epoca in cui si poteva invitare uno sconosciuto a pranzo la domenica solo perché appartenente alla stessa classe sociale, in cui l’amore e la passione per la lotta univa anche i destini amorosi. C’è un pizzico di nostalgia per quei tempi in cui si respirava vitalità, voglia di reagire e di lottare per i propri diritti. Oggi sembra tutto finito: il simbolo del presente scelto dalla Labate per concludere il film è infatti il centro commerciale con cui è stato “bonificato” il lingotto.
Emma (Valeria Solarino), figlia di operai immigrati dalla Sicilia (che non hanno mai scioperato), ha il proprio destino segnato dal riscatto: laureanda in matematica, lavora in Fiat al settore informatico, è fidanzata con un ingegnere (Fabrizio Gifuni) della stessa ditta. Lei è la donna nuova, sospesa che dovrà decidere che strada prendere, come l’Italia di quei giorni: aziendalista con il fidanzato e barricadera con Sergio, forse semplicemente in cerca di una propria identità perché non si identifica più pienamente con i valori della famiglia, né con quelli del profitto simboleggiati dal fidanzato, né con la lotta a oltranza (che è poi si è rivelata fallimentare) di Sergio (Filippo Timi) che segue per amore. Qual è la strada da seguire? La regista non dà risposte, piuttosto ci lascia con degli interrogativi sul nostro presente e sul nostro passato. Valeria Solarino è troppo bella, elegante per essere credibile nel ruolo di un’impiegata proveniente da una famiglia operaia d’immigranti ed è un po’ statica, ma perfetta nell’incarnare la diafana bellezza sensuale (dalla camminata alla Jeanne Moreau) che fa impazzire d’amore il passionale e carnale Sergio. Sergio è operaio alle presse (lì avviene il primo incontro/scontro tra i due che darà inizio alla passione di lui), attivo politicamente nel sindacato, in prima linea nei picchetti. E’ interpretato da uno strepitoso Filippo Timi, che con la sua fisicità – energia vitale e fragilità al tempo stesso – veicola perfettamente la Storia: quando Sergio s’incontra e scontra con Emma è tutti gli operai insieme, così come Emma è la Signorinaeffe (la signorina Fiat, odiata e amata al tempo stesso). Convincenti e a fuoco anche gli altri del cast: Giorgio Colangeli, Sabrina Imapacciatore, Fabrizio Gifuni e Fausto Paravidino.
“Valeria Solarino è troppo bella, elegante per essere credibile nel ruolo di un’impiegata proveniente da una famiglia operaia d’immigranti …”
in base a quale pricipio o legge naturale?
Certamente in base a nessuna legge di principio o legge naturale, ma è difficile immaginare un’impiegata, che non ha mai guadagnato grandi cifre, e non credo che questo avvenisse trent’anni fa, che possa permettersi vestiti che sembrano usciti da una sfilata d’alta moda… Avevano un che di stonato a mio modesto parere…
Assolutamente d’accordo con il giudizio sulla comunque brava Valeria Solarino. Non saprei dire se, invece, l’amore barricadero fosse amore (e non si parla solo di carne e sangue, ma anche metaforicamente dell’ideologia e del valore forte di un credo politico/sindacale) o solo fascinazione per un’idea forte di leadership.
Emma ama Sergio (ovvero abbraccia la posizione della lotta a oltranza) o è travolta dalla sua ‘turgida’ militanza?
Lo scontro fede e ragione, a ben vedere, è assai controverso, e alla fine per Emma – ovvero i 40.000 – vince la ragione sulla fede, la misticanza sulla militanza.
Il dubbio che si apre, subito dopo, è su come e quanto la sconfitta non abbia avuto poi possibilità di rivincita. Il sindacato ha fallito, il popolo si è piegato, e non si è più rialzato.
Quello che si è rotto era un legame, un credo solido, o una passione maschia e irsuta svanita sul fare del giorno?