Presentato alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Berlino nella sezione Panorama, Riparo di Marco Simon Puccioni trova finalmente la via delle sale anche nel suo paese di origine. Cofinanziato dalla Friuli Film Commission, dal Ministero dei Beni Culturali, dai programmi europei Eurimages e Media e indirettamente, grazie ad un preaquisto, anche dalla RAI, il film non ha avuto la fortuna di poter contare su un piano distributivo di ampia visibilità. Dopo aver fatto il giro dei festival di mezzo mondo (oltre cinquanta partecipazioni), racimolando anche diversi premi per le interpretazioni delle due attrici protagoniste, Riparo è costretto alla distribuzione indipendente della neonata e non convenzionale associazione Movimento Film, fondata nel dicembre 2007. Frutto di un accordo tra autori e distributori cinematografici, la Movimento nasce con l’intento di sopperire alle croniche carenze della distribuzione italiana e per questo potrà contare sul supporto di Circuito Cinema per una visibilità a livello nazionale e sulle sale del circuito Microcinema per il passaggio nelle migliori sale d’essai. Niente a che vedere con le 500 copie del film di Moccia, ma per gli interessati Riparo, a Roma, è visibile almeno al Greenwich di Testaccio, nella piccola sala tre.
Fatta salva la buona novella, bisogna dire che il film di Puccioni ha contribuito a un'annata particolarmente positiva per il cinema italiano (120 milioni di biglietti strappati, oltre cento produzioni, quota di mercato dei film nazionali sopra il 30%) ma, come tanti altri lavori del 2007, non contribuirà ad alcuna rivoluzione del panorama italiano.
Riparo convince solo a metà. La storia si snoda tra la bella casa di Anna, in cui convive con Mara, e la fabbrica di scarpe della famiglia di Anna, in cui Mara lavora. Siamo a Udine e i produttivi equilibri della provincia del nord-est verranno sconvolti dall’arrivo di Anis, adolescente magrebino entrato clandestinamente in Italia al quale Anna, contrariamente al parere di Mara, sente di dover dare aiuto e ospitalità. Casa e fabbrica sono i luoghi privilegiati del racconto: questi due set saranno teatro di un crescente degrado sentimentale cui il film, con un finale aperto, non pone soluzioni.
Puccioni, oltre all’esordio del 2002 con Quello che cerchi, ha al suo attivo anche diversi lavori da documentarista grazie ai quali ha avuto la possibilità di lavorare con Chiesa, Vicari, Ferrario, Pannone e Giannarelli. Una simile formazione emerge quando il film lascia la macchina da presa libera di riprendere gli esterni: autostrade, centri commerciali, fabbriche, paesaggi ancora non toccati dalla conurbazione, tutti ripresi con una luce naturale, sono tra le immagini più belle di Riparo e le uniche in cui uno sguardo concreto si rivela in grado di rendere giustizia al reale. Si gioca molto sulla mobilità forzata cui sono sottoposti i personaggi. Dalla casa alla fabbrica alla città, i mezzi di locomozione divengono il terzo set e, al contempo, sono espressione della classe sociale di appartenenza: Anis il clandestino viaggia in autobus, Mara l’operaia si muove in scooter, Anna con il suo SUV.
Il peccato originale di Riparo risiede però nella sceneggiatura e sembra discendere direttamente da un modello produttivo di stampo televisivo: il voler ricoprire con uno strato di verosimiglianza delle situazioni artificiose. Non mi riferisco tanto alla mancanza di realismo del casting per cui un’attrice portoghese e una attrice slovacca sono calate, rispettivamente, nei ruoli di un’imprenditrice e di un’operaia friulane: la TV ci ha reso avvezzi a simili “imprecisioni” e sia Maria De Medeiros che la Liskova si rivelano infine due bravissime interpreti.
Penso piuttosto alla molteplicità di significati e di letture possibili implicite in un simile scenario: una ragazza portoghese, un ragazza slovacca e un ragazzo marocchino posti in un territorio che sta perdendo la sua identità di frontiera. I confini che cambiano, i flussi dei lavoratori migranti che li attraversano, i cicli di produzione e ricchezza che si spostano: potrebbe essere anche la metafora del cinema stesso. Tali potenzialità rimangono però insondate; inespresse o appena accennate (in una scena le operaie aprono delle lettere di licenziamento giunte perché la fabbrica chiude e la produzione si trasferisce in Romania). Il film volge tutto sul piano delle differenze culturali: famiglia contro libera espressione della sessualità, fede contro laicità, imprenditore contro operaio.
C’è molta carne al fuoco: posti su un unico piano del discorso troviamo razzismo, insicurezze sentimentali e differenze di classe, in una continua e irrisolta oscillazione tra il melodramma e la ricognizione sociale. L’unico a recitare la parte di se stesso è Mounir Ouadi, il ragazzo che interpreta Anis: reclutato dal regista attraverso le strutture assistenziali francesi, Ouadi ha realmente provato sulla propria pelle la condizione della clandestinità. Anna, ricca e indipendente, è una donna a cui manca la figura del padre; Mara, precaria e dipendente da Anna, è una donna senza madre; Anis, clandestino senza condizioni minime di dignità, è un ragazzo senza padre né madre. Come molti altri film di questi ultimi anni (da Amores Perros al recente Into the wild), Riparo abbandonerà a se stesso il suo personaggio più fragile e doloroso, lasciandolo solo al centro di uno spazio inabitato.
sì, un film con una spiccata sensibilità verso gli ambienti, ripresi sia nel loro flusso quotidiano che nella loro carica simbolica (la sedia monumentale, le strade alberate che sembrano tunnel prigioni, la ferita che rimane aperta nel canneto/giungla in un finale in cui anche la fuga sembra negata). Le relazioni, invece, sono purtroppo costruite come dei teoremi, di geometria sociale e psicologica ben poco variabile. Le relazioni “diverse” che derivano così disperatamente da qualche trauma o esclusione, le dipendenze tra le persone così poco sottili e sfumate. Insomma, il registro realistico delle immagini in questo caso cozza forte contro l’artificiosa costruzione a tesi della storia. Brave le interpreti, anche se il folletto De Medeiros sembra un po’ sacrificato, stranianti i dialoghi tra la portoghese e Trevisan (ma, sono d’accordo, l’autore non allunga lo sguardo sullo spaesamento preferendogli la rappresentazione didascalica del conflitto). Comunque un film interessante e ben fatto.