C’è voglia di riscatto e possibilità a Beirut, e “alla mia Beirut” è la dedica che chiude i titoli di coda di questa commedia un po’ mélo della regista libanese Nadine Nabaki (anche protagonista). Le riprese del film sono terminate poco prima dell’attacco israeliano, ma i drammatici accadimenti che sono seguiti, invece di annullare la ricerca di vita e di leggerezza, sembrano restituire, per giustapposizione, ancora più verità, seppure straniata.
Visto a Cannes nella sezione Quinzaine des Réalizateurs, Caramel, attraverso una narrazione accurata e vivace, ci parla appunto di questa città ferita ma lo fa obliquamente, con la forza dirompente e un po’ caramellosa dei desideri che si muovono dentro un salone di bellezza per donne, luogo magico e sensuale. Desideri che si riflettono negli specchi (lo sguardo dei due vecchi; la reciprocità delle due donne; lo specchio del salone di bellezza dove passano le incerte e buffe attese di cambiamento), attraverso la leggerezza colorata della commedia, i toni più profondi del melò, il realismo, vivo e sensuale, dei corpi: capelli morbidi e mani mobili, occhi resi più profondi dal pianto (Layale, la proprietaria del salone, è una Penelope Cruz più terrigna e afferrabile – potrebbe turbare più di un sogno – molto brava), bocche afferrate dallo stupore, passi incerti e balletti ironici con un occhio allungato sulle trame femminili cucite ad arte da George Cukor. Ed è altresì significativo che a cantare i canti tradizionali, che ci raccontano di sentimenti familiari, di istinti antichi e dell’amore intenso e un po’ folle, l’unico che sembra innescare la fusione necessaria al cambiamento di pelle, sia la giovane attratta dalle donne, il “maschiaccio” per pose e gestualità (che sembra riappropriarsi della parte femminile nel morbido shampoo che friziona sui capelli dell’altra donna). Ecco quindi che nel canto (interrompe le formalità allegre del matrimonio per cantare – urgentemente, sembrerebbe -, la sua verità sull’amore) la goffaggine infantile sembra tramutarsi in ispirazione senza tempo, creazione che media la contraddizione fra tradizione e progresso. E quindi, appunto, speranza attiva.
Desiderio di una Beirut in cui poter vivere senza paure né censure (paradigmatica la scena in cui il poliziotto provoca una piccola guerra laddove c’era solo animato dialogo), dove non limitare la memoria entro i confini dolorosi della guerra (che sembra lasciata in un significativo fuori campo). Una Beirut di donne indipendenti, in polemica con la realtà, che lavorano e parlano, intente a riprendersi la propria, diversa normalità. Sentimenti, abitudini, sesso, maternità, non c’è dismissione della comprensione né dello sguardo, complice e sensibile – la macchina da presa, quasi sempre a mano, che alterna eloquentemente singoli volti, incontri intimi, gruppi allegri. Ridere è il fatto che non può mancare, è l’olio che libera l’ingranaggio e che anche in tempi di guerra e di magra può uscir fuori dagli arbusti più scorbutici e resistenti. D’altra parte il caramello dolciastro che scorre nelle prime inquadrature stempera la propria carica melensa nell’applicazione: ceretta depilatoria, fatta con acqua, zucchero e limone.
Le generazioni – per lo più donne, in quella che sembra una scelta politica e quindi una piccola “manipolazione” della realtà così come appare – sono rappresentate al completo (i bambini, che sembravano mancare, prendono la forma migliore nella ragazzina dai capelli rossi, figlia dell’amante di Layale e della sua moglie bambina, che con la sua autenticità semplice e diretta toglie la maschera e svuota l’ossessione). Ma tutto ha un tempo. E se la bella Layale riesce finalmente a non rispondere al clacson dell’amante – personaggio invisibile che non ha mai pensato, seriamente, di lasciare la propria moglie – che la domina con piglio machista e da cui contraddittoriamente (vista l’autorevolezza da lei conquistata in tutte le altre arene di vita) ha deciso di far dipendere la sua esistenza da qualche anno, e ad accogliere finalmente, con un sorriso di maliziosa ritrovata vitalità, il tentativo, buffo ma aperto, di avvicinamento da parte del giovane poliziotto (una lingua provocatoria, uno scontro che dura un secondo in più del normale), non altrettanto può tentare la non più giovane ma ancora bella Rosie. Intrappolata in una dipendenza con la vecchia e pazza sorella Lilli non riesce, o meglio, non può più rendersi libera di vivere un incontro, una possibilità intravista in un vecchio ma funzionante specchio dove un non più giovane francese prova dei pantaloni troppo corti. Anni di rinunce e di sacrifici, per paura, forse per un vecchio dolore o per troppi doveri – sembra farci intendere – hanno cucito un legame che non può più essere modificato senza che ci scappi il morto. La scorbutica e querula Lilli aspetta infatti da chissà quanti anni la lettera del fidanzato perduto e nel frattempo raccoglie carte e scontrini dalla spazzatura. Il film si chiude con Rosie che, tolto il trucco e lo sguardo dalla messa in piega troppo a lungo rimandata, accompagna Lilli a raccogliere le sue carte, la tiene per mano, come la figlia che forse non ha avuto, scendendo la discesa lentamente, la testa obliqua, in una stanchezza che alterna pace a rimpianto.
Ma è la leggerezza e la possibilità, ribelle, che rimane il mattino dopo la visione di Caramel. Attendendo magari la Beirut, forse più scomoda, rappresentata in altri film mai pervenuti a “normale distribuzione”. Questo film, in ogni caso, ha la sua forza nel ritmo e nell’attenzione empatica verso i personaggi. Meglio di tanta goliardia d’oltralpe quanto d’altrettanta caoticità ispanica, confezioni fatte per durare al più fino all’ammazzacaffè. Poi tutti a dormire, senza il fastidioso rischio di ritrovarsi in un sogno fatto di specchi, saloon disarmati e un liquido che scorre più caldo del normale.
Complimenti, una recensione veramente riuscita, che riporta alla memoria le sensazioni dal sapore agrodolce provate alla visione del film..
film meraviglioso,per una come me molto sensibile al problema delle donne libanesi pakistane e non solo…