Uno schiaffo in faccia, o un cazzotto, farebbe meno male. E non per il tema crudo, magistralmente sceneggiato, diretto e interpretato. Non per il ritmo del montaggio, sapientemente calibrato sugli eventi e sul tono dei personaggi, un saliscendi continuo che non ti dà tregua.Per quell’inquadratura finale, che ti sbatte in faccia lo squarcio sociale e psicologico fra chi quella realtà la conosce e chi la vede solo al cinema, o peggio, in tv.
Questo film fa più male quando esci dalla sala che mentre lo guardi. Quell’inquadratura ti insegue, ti perseguita e ti entra dentro. La conciliante nota di speranza che appare ai più è invisibile a chi sa davvero di cosa il maestro Caligari stesse parlando.
Un corposo filo di dolorosa autenticità sostiene tutto il film, grazie a una scrittura serrata, priva di vuoti o tentennamenti, mai ridondante o grottesca nella scelta degli eventi e nel racconto di quei personaggi così dannati ma così poco “personaggi” e così tanto umani. Esseri umani. Resi ancora più tali da una assai convincente interpretazione di attori bravissimi e molto ben diretti.
La macchina da presa si muove intorno a loro aggrappata al loro respiro, al loro delirio, anzi sta in mezzo a loro, diventa una di loro, e noi con lei.
Le ultime due scene sono il più duro, vero e disperato grido di denuncia politica e sociale che io mi ricordi in anni e anni. Un urlo sordo a una società anestetizzata, a una politica cieca, che quando non è occupata a curare i propri sordidi interessi, vede solo la facciata rassicurante di quell’ultima inquadratura, sfugge al racconto di quell’infinita catena che solo un robusto intervento politico potrebbe spezzare, non coglie che quell’inquadratura è indissolubilmente legata alla prima scena, la coazione a ripetere che ci dice che dai tempi di Amore tossico niente è cambiato, se non le forme, gli abiti, il gergo.
Eppure qualcosa è cambiato, Caligari affonda il colpo senza sconti per chi vuole chiamarsi fuori e al tempo di Amore tossico additava quella disperata compagnia come il degradato “altro da sè” che non ci riguarda, a noi gente perbene, a noi che lavoriamo e ci sudiamo il pane. Davanti a questa nuova e reiterata storia nessuno puó nascondersi dietro l’alibi della moralità, perchè il tentativo di smarcarsi da un contesto insostenibile, di aderire ai valori dei “giusti” ne esce sconfitto, perchè il principio cardine di questa “giusta democratica e moderna società” è stato rosicchiato, lapidato e demolito a colpi di emendamenti e distrazioni, perchè se il lavoro non nobilita più l’uomo, ma lo umilia e gli strappa la dignità e con essa la possibilità di salvarsi da un inferno che brucia tutto intorno, allora siamo tutti coinvolti.
Ed è per questo che la faccia del piccolo Cesare con cui ci lascia Caligari stride ancora nel mio stomaco come unghie che grattano la lavagna.