Lo scorso 6 maggio abbiamo incontrato Vittorio Moroni che “presidia” il cinema Metropolitan dove è proiettato il suo ultimo film, Le ferie di Licu, distribuito a Roma solo in questa sala. Il regista accoglie con calore gli spettatori e racconta il perché non abbia ottenuto pubblicità e la distribuzione sia stata così problematica.

Partiamo da come è nato questo film che ha una storia, come tu accennavi, abbastanza lunga, com’è nata l’idea da cui parte.

Il film è nato in un certo senso un po’ per caso perché all’inizio stavo cercando di scrivere una sceneggiatura, avevo un soggetto che aveva avuto una segnalazione dal premio Solinas, dentro questo soggetto/trattamento c’erano dei personaggi bengalesi di cui non riuscivo a scrivere. La sera mi inventavo di scrivere delle cose che dovevano fare e dire e la mattina rileggendole mi sembrava fossero forzate. Questo era il segnale chiaro che non conoscevo quella realtà e che c’era quindi bisogno che mi immergessi nella loro vita, che conoscessi le loro aspettative, i loro sogni, i loro problemi. Per cui ho cominciato a intrufolarmi nella comunità bengalese di Roma che si trova nella zona di Tor Pignattara. Sono entrato in contatto con varie storie, alcune molto interessanti, che giravo come appunti visivi; non avevo ancora l’idea di fare un documentario, era molto difficile trovare un accesso intimo perché alcuni di loro non si lasciavano filmare. Poi ho incontrato Licu che era il più vicino di tutti al personaggio che stavo cercando di raccontare perché aveva un’interessante contraddizione, un movimento continuo dentro di sé tra la voglia di essere romano e di sembrare romano, visibile anche sul suo corpo (con questo ciuffo alla Elvis a cui lui dedica trenta minuti ogni giorno, con le camice griffate, la sciarpa della Roma, l’italiano un po’ scarso ma con l’accento romanesco) e il rispetto verso la sua cultura e la sua tradizione: diventava sempre molto serio quando citava i suoi genitori e il suo paese… Ogni tanto queste due anime entravano in collisione per cui lui mi diceva delle cose che erano un po’ contraddittorie fra di loro: per esempio si definiva un osservatore delle norme Haram (le cose proibite dal Corano) però al tempo stesso era entusiasta di lavorare con Giulia (la modella della fabbrica di abbigliamento, ndr) e di portarmi il calendario per il quale lei aveva posato. Era come se dentro di lui ci fosse un negoziato tra codici che erano in fermento. E questo era qualcosa che apparteneva anche al personaggio di cui volevo raccontare. Peraltro aveva anche una grande curiosità della mia curiosità nei suoi confronti e quindi si lasciava riprendere in un modo molto bello, cioè mi sembrava che lui non avesse l’atteggiamento di chi si vuol far riprendere perché è narcisista, quindi da una parte non faceva mai delle cose solo perché c’era la telecamera, e dall’altra non mi fermava mai, cioè mi lasciava esplorare anche aspetti intimi della sua vita. Queste cose insieme mi hanno fatto pensare che forse aveva senso fare un piccolo documentario su di lui, un documentario di mezz’ora pensavo, che avesse a che fare più con gli aspetti sociali della sua vita, che riguardasse i suoi lavori, il modo in cui veniva trattato sindacalmente, come doveva stare in casa con altre persone per poi poter pagare l’affitto e così via. Poi sono iniziate a capitare delle cose che erano molto diverse da quelle che immaginavo sarebbero accadute: per esempio avevo pensato che Licu, ad un certo punto, avrebbe iniziato a cercare una fidanzata italiana, magari Giulia. In realtà quando è arrivata questa lettera dal Bangladesh e l’ho visto aderire entusiasticamente a una proposta che immaginavo fosse molto lontana da lui, cioè quella di andare a sposare una ragazza che non conosceva e non avrebbe conosciuto prima del matrimonio, ho capito che avrei dovuto cambiare programma. A quel punto abbiamo pensato di fare una cosa più lunga e di darci delle regole del gioco che fossero diverse, che riguardassero la realizzazione di un documentario narrativo. Così mi sono proibito di usare interviste e la voce fuori campo, e ho provato a raccontare questa storia osservandola, senza giudicarla né orientarla. Nello stesso tempo ho cercato di far passare i sentimenti che avevo per questa storia, non ho avuto uno sguardo freddo e distante. Abbiamo chiesto se potevamo andare in Bangladesh a seguire il suo matrimonio, lui ha detto di sì e allora siamo partiti. A quel punto l’idea era quella di finire il film dopo il matrimonio che io immaginavo fosse una cosa semplice dato che era combinato. Poi il matrimonio  si è rivelato molto più complicato e rocambolesco di quanto immaginassi, ad un certo punto sembrava che naufragasse e che lui sposasse un’altra di quelle che avevano trovato. Quando poi abbiamo cominciato ad attendere il ritorno in Italia della sposa, abbiamo pensato che forse la cosa più interessante da raccontare fosse quella che ancora doveva arrivare: due persone si sono sposate senza conoscersi per volere di altri, come faranno a vivere insieme, a trovare un loro equilibrio, a provare a essere felici in un luogo che peraltro è molto lontano da quello in cui sono stati educati? Si trattava di fare un lavoro di 90 minuti, di fare un film. Siccome fino a lì eravamo riusciti più o meno a dargli una forma che non aveva bisogno di interviste, di voci fuori campo, abbiamo girato poi un altro anno che è stato poi il loro primo anno di vita a Roma insieme. E così è nato il film. Quando arrivavamo alla fine del montaggio, che avveniva in contemporanea alle riprese (la forma ipotetica del film veniva data mentre si girava), buttavamo tutto ogni volta che la realtà ci metteva su una strada diversa e ci avventuravamo nella nuova direzione. A quel punto però abbiamo finito i soldi, e allora abbiamo creato una società di produzione per riuscire a pagare un po’ di persone che lavoravano da molto tempo, ci siamo distribuiti delle quote in modo che tutti quelli che volevano partecipare sapessero che facevano parte dello stesso progetto con rischi e possibilità di recuperare se il film fosse stato venduto. Altre persone sono entrate nel progetto per un periodo più breve e sono state poi liquidate, compresi Licu e Fancy. In tutto questo poi abbiamo avuto ad un certo punto varie stesure del film che spesso presentava dei buchi, dei vuoti che noi non eravamo riusciti a riprendere mentre accadevano e abbiamo dovuto fare un lavoro di ricostruzione. Per cui ci sono delle giunture nel film che non sono state riprese mentre accadevano ma sono state ricostruite con i protagonisti, grazie alla loro memoria, abbiamo cercato di rimettere in scena cose che erano già avvenute o che erano la sintesi di cose già accadute senza che noi le avessimo riprese prima. A quel punto Licu e Fancy sono diventati degli attori e ci è sembrato giusto pagarli. Arrivati alla fine della stesura di montaggio non avevamo più un soldo e non potevamo più affrontare i costi successivi, cioè quelli di post produzione che erano ancora ingenti (il montaggio del suono, la preparazione del video con la color correction, il trasferimento in pellicola), così abbiamo proposto il film a Rai Cinema che ha accettato di intervenire pre-acquistando il film per la messa in onda. Grazie a quei soldi e a una parte di soldi di quota che si è presa sul film (Rai Cinem
a quindi non è co-produttore ma co-proprietario e pre-acquirente dei diritti di antenna) noi abbiamo finito il film e abbiamo finito di pagare anche le altre persone.

Nella seconda parte del film sono maggiori le parti documentarie o quelle ricostruite?

La parti girate in Bangladesh sono tutte documentali, non sarebbe stato possibile ricostruire. Nella parte italiana c’è una mistura che credo e spero si amalgami bene tra queste due anime. Penso di aver maturato una certa esperienza di lavoro con attori non professionisti perché avendo fatto molti corti, avendo lavorato con bambini o con ragazzi nel mio film precedente, mi sono dato un metodo abbastanza preciso sul lavoro con attori non professionisti che qui mi ha molto aiutato.

E qual è stato?

Quello di non considerarli attori professionisti, cioè di non partire da un lavoro di consapevolezza sul personaggio che è invece proprio quello che mi piace fare molto con gli attori professionisti. Ho notato che con gli attori non professionisti non ha senso applicare il metodo Stanislavskij perché ne escono fuori cose inguardabili. Quello che facevamo era lavorare sulla memoria, ricostruivamo delle atmosfere nelle quali si ricordavano come erano andate le cose e loro stessi le rivivevano recitando. Tutto ciò senza testi scritti o cose programmate insieme. Non abbiamo mai girato più di due ciak a volta per evitare l’intervento di elementi di finzione e di falsità.

Quante ore di girato avete realizzato?

Abbiamo avuto circa 127 ore di girato che in realtà non è moltissimo in due anni di lavoro. C’è stato anche un tentativo di essere molto selettivi, di stare anche molto tempo senza girare se non accadevano cose rilevanti. Di queste ore, 75 sono state quelle parlate in bengalese, le più difficili da gestire. Il lavoro di traduzione è stato infatti massacrante e ha richiesto l’impiego di due persone che hanno lavorato costantemente per quattro mesi. In Bangladesh avevo un traduttore che mi diceva a grandi linee che cosa accadeva però poi è stata la traduzione analitica a rivelarci le scene in cui c’erano i tesori e quelle in cui c’erano cose sperate e non ottenute.

Tu in precedenza hai lavorato in pellicola. Qual è la differenza che hai trovato lavorando in digitale, che macchina hai utilizzato e che cosa ha implicato rispetto al montaggio? Lo chiedo per sapere anche quali sono stati i costi del film.

In questo caso girare in pellicola mi sarebbe stato impossibile intanto perché mi sento più sicuro girando in video, e poi perché ho potuto stare in macchina e per questo film è stato fondamentale perché le scelte avvenivano mentre si girava. Anche nell’altro film (Tu devi essere il lupo, ndr) avevo girato io le parti in video che però erano una parte assolutamente minoritaria. Comunque la troupe per girare in pellicola, per quanto fosse piccolo il mio primo film,  implicava comunque la presenza di quaranta persone, un apparato gigantesco anche se lo si considera solo dal punto di vista dell’impatto che avrebbe avuto sulle situazioni. Mentre così abbiamo avuto la possibilità di essere quasi invisibili: certo tutti sapevano che c’eravamo e non abbiamo mai fatto candid camera. Però ogni tanto avevo la sensazione che ci dimenticassero, soprattutto in Bangladesh dove i problemi erano talmente assillanti e continui che per loro noi eravamo una preoccupazione periferica. Inoltre abbiamo usato molto il teleobiettivo e i radio microfoni che ci hanno consentito di riprendere le cose ravvicinate stando però distanti. La parte più difficile da questo punto di vista forse è stata l’ultima, quella in cui eravamo in camera di Fancy mentre Licu non c’era, lì era difficile farci dimenticare, soprattutto da lui che mal soffriva che dovessimo girare in casa senza di lui e però lo accettava perché c’era un rapporto di fiducia. Il compromesso è stato che lui ce lo concedeva però poi telefonava dieci volte in un’ora.

Ogni quanto tempo montavate?

Il montaggio veniva fatto dopo un paio di settimane di ripresa circa (il montatore è Marco Piccarreda) e poi si faceva il punto della situazione provando a reinserire quel materiale e a vedere che forma prendeva il tutto.

Com’è nato il passaggio dal tuo primo film a questo che ci sembra molto differente dal primo?

Questa è una domanda alla quale non so mai rispondere, anche per l’altro film non sapevo cosa rispondere, e Nanni Moretti mi ha detto che è grave che io non lo sappia, ma continua a essere così. La domanda di come nasca un’ispirazione è complessa, io ho sempre tante idee, tanti progetti e cerco sempre di non partire con nulla finché non ho almeno otto/dieci idee che coagulano intorno a quel progetto, dopo di che qualcuna muore, e quelle che sopravvivono sono quelle più forti. Forse è vero che sono i due film sono differenti, qualcuno dice invece che hanno qualcosa in comune, fatto è che sono nati insistendo su un materiale che, nel caso de Le ferie di Licu parte dalla ridefinizione dell’identità, che in certo senso sentivo mi riguardasse. Non mi sono mai sentito distante da Licu, dal suo essere in movimento, dal suo cercare di capire chi fosse. Aveva il problema di vivere in un luogo molto distante da dove era nato e cresciuto e, nello stesso tempo, di dover decidere ogni giorno cosa prendere e cosa lasciare di quel mondo.

L’equilibrio che c’è nel film tra la storia di lui e quella di lei e che impedisce di dare allo spettatore un giudizio ma sviluppa invece un atteggiamento di comprensione, tu lo hai posto come presupposto? Le domande che Giulia per esempio fa a Licu, non sono mai provocatorie, sempre volte ad ascoltarlo e a farlo parlare…

Sì, penso che questo fosse il problema principale, cioè quello di essere delle persone che appartenevano a un universo di valori molto diverso dal suo però vicine di casa e quindi con il diritto di guardare alla sua storia pur non essendo bengalesi. Avendo anche il privilegio di poterlo fare non essendo bengalese, notando delle cose che forse un regista bengalese non avrebbe notato, delle cose alle quali non avrebbe dato importanza. Così ho potuto lavorare su questo sfasamento della prospettiva e però, allo stesso tempo, io non me la sono sentita di mandare messaggi su cosa sia giusto e cosa non lo sia, volevo che la mia fosse un’esperienza di conoscenza e che quindi fosse più importante mostrare che dire. Certo non mi sono sottratto nel mostrare il mio struggimento quando riprendo Fancy e spero che lì si veda il mio sguardo, in senso tecnico, “erotico”, cioè portatore del mio sentimento, della mia adesione a Fancy senza che ciò diventasse un giudizio negativo su Licu. Inoltre tornando a lui e al suo comportamento verso Fancy, era curioso come tutte le cose che rendevano evidente l’amore verso di lei, cioè il fatto che le regalasse continuamente cose, si tramutasse al tempo stesso nel suo contrario: ogni suo regalo in qualche modo era anche una sbarra di questa p
rigione. Le regalava i dvd con i quali lei doveva passare il suo tempo in casa il giorno dopo e che erano in bengalese, così non le consentivano di imparare una parola d’italiano; le relegalava gli stivali che le facevano percepire ancora più acutamente il fatto di non poterli indossare per strada. Però al tempo stesso Licu nel fare questo era davvero autenticamente sincero.

Ci racconti la vicenda distributiva del film?

In qualche modo è la stessa del mio primo film, dove dopo un anno e mezzo di peregrinazioni tra le distribuzioni che dicevano che il film era piaciuto ma non se la sentivano di distribuirlo, abbiamo deciso di creare un’associazione culturale (la myself) in quel primo caso, trasformatasi poi in una società srl, in cui attraverso l’azionariato è stato creato un budget minimo di ottantamila euro in grado di far fronte alle spese di una produzione alternativa: in otto copie in quel caso, in sette copie in questo. I soldi hanno poi coperto anche i costi delle locandine, del sito internet, dei viaggi con la presenza degli attori che hanno incontrato il pubblico e hanno sostituito la pubblicità e via dicendo. Poi l’altro vero scoglio è stato quello di trovare degli esercenti, dei cinema che ci ospitassero e abbiamo cercato di superarlo con una prevendita di biglietti che sono serviti da una parte a creare un tam tam preventivo, a far sapere che il film c’è ancora prima di avere una sala. Poi sono serviti a dimostrare agli esercenti che c’era un pubblico interessato a questo film perché aveva già comprato il biglietto. Questi sono i pilastri di questa idea distributiva che in questo caso abbiamo intensificato con una nuova idea, quella di fare il “Licu tour” nel tentativo di valorizzare un pubblico conosciuto già con l’altro film che c’è, che è numeroso, che è estremamente attento e che è disseminato in tutte le città e nella provincia della penisola dove spesso non riescono ad arrivare pellicole che sono un po’ più fuori dai circuiti ufficiali, e nemmeno i registi perché magari non hanno tempo di promuovere il loro film. Per esempio ho assistito a un folto numero di spettatori durante la proiezione del mio primo film nelle città di provincia, che erano venute a posta a vedere il mio film perché si fidavano del cineforum che aveva organizzato quell’incontro ed erano disponibili a stare su sedie durissime e in luoghi mal riscaldati anche per ascoltare il dibattito successivo.

In quali altre città uscirà le Ferie di Licu?

Ora il film è uscito a Roma, a Milano e dalla prossima settimana speriamo di rimanerci. Usciremo poi a Napoli, Firenze, Sondrio, Padova e Genova. Più il film sarà andato bene in queste più saranno invogliati a riceverci. Finita questa fase, inizieremo con il “Licu tour”, una serie di serate uniche, con gli incontri con le scuole un po’ in tutt’Italia  fino a Natale.

Farete anche un dvd?

Sì, il dvd uscirà abbastanza presto e conterrà anche un libro che racconterà come è avvenuta la genesi del film, anche perché rifacendoci alla camera stylo della Novella vague, abbiamo ribattezzato la nostra camera a matita. Questo perché abbiamo cercato non solo la massima leggerezza dello strumento per riprendere le cose, ma anche la possibilità di scrivere e cancellare per arrivare alla forma attuale del film.

Quanto è costato?

Considerando anche la quota che le persone entrate in società hanno pagato, è costato 350mila euro. Più i costi della distribuzione che sono costati circa 80mila euro che speriamo di non sforare perché sarebbe un problema.

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