Dialogue avec mon jardinier è il titolo originale dell’ultimo film di Jean Becker e forse anche il più appropriato a sottolineare l’importanza delle parole e del dialogo in un film il cui soggetto nasce fra le pagine dell’omonimo romanzo di Henry Cueco.
Si potrebbe dire che la “letterarietà” sia il pregio e talvolta anche il limite del cinema francese, della capacità dei registi d’oltralpe di girare film minimalisti, a volte al limite del probabile, tenuti insieme dall’architettura di dialoghi impeccabili, dall’arte di saper raccontare, oltre le immagini, attraverso le parole, caratteri, personaggi, ambienti: la macchina da presa trasformata in un sipario teatrale piuttosto che strumento creativo.
Se a questo si aggiunge l’appellativo col quale i connazionali definiscono il cinema di Becker “da papà”, per le ambientazioni rurali e le visioni bucoliche e campestri mitizzate, da “bei tempi andati”, abbiamo una cornice adeguata nella quale collocare il film in questione.
Bisogna però soffermarsi sui “colori” della tela raffinata e preziosa di questa storia, che giustifica il titolo italiano: si tratta infatti della nascita di un’amicizia, ritrovata casualmente, tra il pittore Daniel Auteil che, stanco dello stantio ambiente artistico parigino, sull’orlo del divorzio e in piena crisi creativa, si rifugia nelle campagne avite e il giardiniere, ex-ferroviere in pensione, Jean-Pierre Dauroussin, suo compagno di scuola nell’adoloscenza, che invece non si è mai spostato dal piccolo paese di campagna, seduto nella semplice immobilità di un matrimonio e di una vita uguale a se stessa da circa trent’anni.
L’orto da ricreare nella villa di famiglia del pittore è la scusa per avviare un dialogo lungo tutto il film tra questi due uomini ma anche un escamotage del regista per porre a confronto il mondo provinciale e quello cittadino, la vita “stanca e improvvisamente priva di stimoli del pittore” abituato al ritmo eccitante della metropoli e l’approccio semplice alla vita, fatto di piccole cose e riti quotidiani, di un mondo dove la ripetizione è vissuta come valore e non come noia, incarnato dall’amico giardiniere.
Ambientanto prevalentemente in esterni e in particolare nel giardino della villa del pittore, il film proietta lo spettatore in una realtà atemporale dove città e provincia sembrano due estremi un po’ forzati; semplicistico il confronto, anche visivo, tra una Parigi di cui vediamo solo tangenziali trafficate e un vernissage ai limiti del caricaturale e la campagna rigenerante, ripresa come un giardino dell’Eden, con tanto di venere nuda tra l’erba, di piante e cinguettii dimenticati nel frastuono della fretta cittadina.
Lento, forse semplice nel suo desiderio di raccontare un modo “altro” di sentire e vivere ormai in via di estinzione, tuttavia ci si innamora di questo film. Impossibile non venire trascinati dalla straniazione di “Del Prato”, come si fa chiamare scherzosamente il giardiniere Dauroussin, rispetto all’amico “Del quadro”, così come è impossibile non amare ciò che è autentico.
Vero è il dialogo tra due uomini che confrontandosi si scoprono e imparano ad amarsi nella diversità. Vera è la semplicità della vita del giardiniere, come vera è la crisi e la ricerca del pittore di risposte, che vadano oltre le complessità filosofiche, oltre il concettualismo artistico, negli occhi sereni dell’amico.
E naturalmente vera è la lentezza dei tempi per chi sa o cerca il sapore della vita e non un vago aroma trangugiato di fretta che non lascia emozioni.
Lenti sono i tempi del conversare, per chi ne conosce l’arte, come quelli per amare. E con lentezza i due amici si studiano, si cercano, si interrogano, si scoprono, si amano fino ad accompagnarsi verso l’ultimo traguardo di “Del Prato” che si ammala con la stessa rassegnata e autentica saggezza di chi conosce, oltre a quelle del cielo, anche le stagioni della vita, le leggi immutabili del creato.
Becker ci accompagna magistralmente per mano in un labirinto semplice e al tempo stesso complesso di emozioni, tanto più forti quanto essenziali. Nessuna sbavatura sentimentale attraversa infatti il dialogo serrato dei personaggi interpretati da un grande Daniel Auteil – in una prova che lo riconferma fiore all’occhiello della Francia cinematografica – e da Jean-Pierre Dauroussin, forse meno noto a un pubblico di massa, ma altrettanto titanico in questa prova che rende giustizia al suo talento.
A commuovere arriva Mozart, colonna sonora di una delle ultime scene, la sola musica che potesse accompagnare la raffinata sensibilità di una regia che scuote nel profondo con delicatezza. Come un soffio di vento solleva le foglie anestetizzate dalla velocità e scopre la terra, l’odore della vita. A ricordare i sentimenti che riaccendono i colori sulle tele, la gioia nella miracolosa perfezione di un cavolo, l’essere umano nella preziosità dell’amicizia.