Sono ormai tante le commedie sui giovani. Perché c’è un gruppo di registelli che ha costruito un sistema di divetti a cui i ragazzini non sanno rinunciare. Commedie banali, ambientate tutte a Roma, piatte ed elementari, con delle trame esili e un uso della lingua abbastanza preciso. Colorate ma senza chiaroscuri, piuttosto aride da tutti i punti di vista. In primis nell’incapacità, e nella mancanza di volontà nel tratteggiare con serietà ed efficacia il delicato e importante viaggio dei giovani nella società. C’è stato un discreto, piccolissimo film sui writers poco tempo fa, Scrivilo sui muri, non proprio robaccia ma quel solito pochino di reale e di bel cinema. Ancora famiglie più o meno borghesi, ancora figli intelligenti in cerca di amore e di amicizia. Ancora sorniona metropoli senza i problemi veri che la compongono, e ancora genitori in crisi che dal Sessantotto non si sono ripigliati più. La cosa più notevole di Scrivilo sui muri è che il babbo lo fa Claudio Bigagli (già padre in Io e te tre metri sopra il cielo e in Ho voglia di te) e la mamma la fa Anna Galiena (Come te nessuno mai). La figlia è Cristiana Capotondi (Notte prima degli esami) e aspettiamoci di portarcela dietro per lunghissimo tempo.
Alla faccia dei conti che non tornano: vediamo e rivediamo filmetti che sanno più di serial tv che di cinema. Ne contiamo almeno una decina da Notte prima degli esami in poi. Il cinema italiano non è solo questo e non è per la costante presenza di questo subcinema che in Italia mancano i capolavori. Al contrario: se ce ne fossero cento, di queste commedie, anziché dieci, sarebbe assai più probabile ottenere prodotti di qualità. E’ il vecchio ragionamento secondo cui il miglior cinema italiano sarebbe nato in concomitanza a una robustissima produzione di film (Neorealismo a parte, vedi gli anni ’60). Per ora il ricorso alla classicità della storia d’amore, ai piccoli valori umani spruzzati sulle storie toglie attualità e istantaneità a questi lavori e li porta sul mercatino del guarda e getta di facile archiviazione. Ci suona difficile il recupero a distanza di questa materia, ma magari ci sbagliamo. Ogni conflitto di questi lavorini è ammorbidito da sentimenti di quasi universale comprensione e il rispetto per le regole di genere, per i meccanismi indispensabili al metabolismo di massa, rende questi prodotti quasi nulli dal punto di vista documentaristico. Mancano le storie paradigmatiche, quelle che, forti della capacità di emozionare, segnano una generazione descrivendone profondamente umori, costumi, differenze, direzioni e particolarità. Bisognerà attendere la giusta distanza e la totalità di questa bassa antologia per giudicare definitivamente il valore di queste singolarmente sterili commedie.
Che poi i prodotti che abbiamo vincano le sfide commerciali (e continuino ad esistere e a moltiplicarsi) deriva dal loro essere innocui e politicamente adatti ai giovanissimi del nostro tempo. Perciò le commediole senza qualità, questi pandorini di marca, microfonati e intervistati da mille angolazioni, arrivano velocemente nelle periferie del paese e sulla testa dei più piccoli. Il messaggio è chiaro: fate sesso, ma comportatevi bene. Non drogatevi, non frequentate cattive compagnie e se coi genitori proprio non funziona, non facciamone un dramma perché è così da quasi cinquant’anni.
Le commediole giovanilistiche violentano legalmente il cinema mentre il botteghino gli punta la pistola alla tempia.
Rimane il fatto che esiste una centralità dei giovani nel cinema italiano. E questo è un bene perché nei giovani c’è il presente e il futuro. I giovani sono, al di là dei film, molto al centro del nostro quotidiano. Soprattutto di quello mediatico. Il cinema segue la società e al tempo stesso la plasma. Così fa la televisione. E’ un circolo vizioso o virtuoso, a seconda dei casi. La commedia di cui fa perfettamente parte anche Come tu mi vuoi è di certo più affollata di buoni che di cattivi. La tv, al contrario, ci racconta di una generazione in fortissima difficoltà. Il cinema italiano cosiddetto generazionale ci fornisce una verità mediatica un po’ lontana da quella della tv. Sul piccolo schermo sempre acceso va di moda la tipologia di giovane feroce e malato, avvelenato dalla crisi della famiglia, dal benessere indotto dalle conquiste dei propri genitori e da una società violenta che lo spinge alla distruzione dapprima di se stesso e poi di ogni cosa che lo obblighi ad uno stop o ad un cambiamento. Lucignolo fa finta di aver capito tutto e si atteggia ad amico delle belve. I Tg non vedono l’ora di raccontare corse d’auto e suicidi, incidenti notturni e violenti video amatoriali. E’ come se i nipoti di chi aveva fatto il boom, molti di più di quelli che hanno fatto il ’68), di chi si era comprato il televisore e la 500, fossero andati in cortocircuito. Tra playstation, antifamiglia e telefonini, tutta la nuova giovane materia umana sembra diventata pazza e pericolosa. Colpisce questo ritratto dei giovani se paragonato alla bellezza della categoria. Alla grazia della pelle, alla lucidità degli occhi, all’armonia delle forme, all’energia pulita di quell’età. Da un lato la freschezza della vita che contiene speranza, dall’altra l’illusione tranciata, il sogno interrotto. Il pericolo latente in preoccupante manifestazione. In questo misto di incosciente violenza e saggezza in fieri sta la costante apprensione dei più grandi verso i meno preparati e potenziali artefici di sorprese e progresso. Il futuro non è mai dei vecchi e il focus sui giovani è costante e doveroso. Come al solito c’è chi pensa e scrive cose interessanti e utili sull’argomento e chi ne dà una visione preconcetta, strumentalizzata e strumentalizzabile. Inutile, riduttiva e confezionata. La tv predilige le storie che fanno orrore, ribrezzo e che da sole minano l’intero “sistema giovani” e con esso il futuro della nostra società. La tv non offre letture e spiegazioni, provoca emozioni. Perché davanti all’angoscia non si prova noia e si perde il desiderio di cercare altrove sensazioni. In tal senso Perugia vale più di Garlasco, perché c’è più droga, più sesso e multiculturalità. L’importanza di Garlasco sta nella mancanza del colpevole, tutto il resto è noia, con l’ingegnerino pallido e la vittima suorina. C’erano le cuginette interessanti, ma hanno tirato troppo la corda, stretto troppo i tempi, così come Corona, troppo finto in un argomento dove la verità ha un peso fondamentale. Perugia è molto di più. Il male ricco in mezzo all’arte e alla cultura. Americani, africani e figli di papà pugliesi tra la vita con la V maiuscola e la magia dell’essere studente fuori sede. L’orrore misterioso nella culla di pietra illuminata di sera, d’arancio per le frizzanti vie di incontri amorosi, musicali, eccitanti di un tempo magico che poi passa per sempre.
E’ proprio della natura umana costruire un rapporto costante tra padri e figli: o si è figli o si è padri. E se si è padri si osservano i figli con meraviglia e paura. Possono fare quello che non hanno fatto i genitori: superarli, rinnegarli, imporre loro delle insopportabili verità. Oppure distruggere il lo
ro lavoro, sperperarlo, annullarlo, umiliarlo. Sarà forse per questo che il potere mediatico (in mano ai padri) si attiene con morbosità alle orribili malefatte dei figli? Perché è incastrato tra l’invidia e l’obbligo della denuncia preventiva? La maggior parte di noi trentenni non sa come sono fatti gli adolescenti o i ventenni di oggi. Sono poche per noi le possibilità di arrivare ad una diagnosi di valore: bisognerebbe avere un fratello adolescente (ma non è comune la distanza almeno decennale con un fratello), o insegnare in una scuola superiore (non proprio facile come lavorare in un call center), oppure avere figli di quindici anni (praticamente impossibile). Dobbiamo stare alla rappresentazione superficiale di una categoria che molto spesso è la rappresentazione voluta dalla tv. Sappiamo del bullismo come fenomeno diffuso, delle temibili baby gang, dei branchi, dei giovani aprioristicamente ribelli a tutto. C’erano anche negli anni Ottanta e di certo non le hanno inventate i paninari. Ma l’esperienza di vita e il contatto costante con la nostra generazione, prima che diventassimo adulti, ci porta a sostenere che il male e il bene vanno oltre il tempo e oltre l’educazione. Che allo stesso evento due fratelli gemelli possono rispondere in maniera opposta. Non si vuole raccontare di giovani di oggi identici a quelli di ieri. Ma nemmeno trasformare le particolarità di questa generazione in una diversità inesistente. Si dice che i giovani di oggi siano abituati a consumare con una fretta sconosciuta alle generazioni precedenti. Nelle commedie troppo leggere che passano oggi nelle nostre multisale, se c’è qualcosa che possiamo cogliere è proprio questo essere così vicini e così lontani dalle precedenti generazioni. Perché la storia non si fa mai a compartimenti stagni, se non alle scuole elementari.
Nei film che si ripetono, e che non ci piacciono, l’amicizia, la musica e l’amore rimangono centrali. Aumentano il sesso, le canne, la velocità e la quantità di esperienze. Segno di una certa importanza. Che è un male e un bene al tempo stesso. La conoscenza porta all’assenza di paura ma l’esperienza crea dolore e sacrificio. La droga vera (la cocaina) si affaccia per la prima volta proprio in Come tu mi vuoi. E questo è un fatto generazionale. Come è generazionale il movimento culturale che passa per lo stadio e che fa della violenza uno dei propri segni distintivi. Non è generazionale la violenza e nemmeno la violenza legata al calcio. E’ generazionale il movimento violento vestito di una vuota ed estetica politicizzazione. E’ generazionale il crescente hooliganismo di matrice britannica, la chiara ostilità verso i rappresentanti più bassi dello stato: le forze dell’ordine. E’ generazionale l’organizzazione della violenza a scopi identitari, prepolitici o commerciali. E’ generazionale l’agguato lontano dallo stadio: secco, silenzioso, deciso, chirurgico. E’ generazionale l’odio freddo senza sostanziale ideologia politica. E’ generazionale il nero estetico della curva, il fanatismo domenicale di chi vuole prendersi una minuscola fetta di visibilità, di potere, di identità. E’ generazionale l’allontanamento quasi dichiarato dai colori della squadra. Lo scontro lontano dallo stadio ed in assenza di partita sono due indizi di una certa pesantezza. Quello Ultras è il movimento più rumoroso e più inutile che abbiamo oggi. Fatto di tanta manovalanza, il solito esercito di ragazzi smarriti dalla nascita, e da furbacchioni palestrati e carismatici che acquistano forza e potere attraverso l’esercizio del comando e dell’organizzazione. Che fine farà questa pericolosa energia una volta che, chissà quando, il calcio riuscirà a liberarsene? Si rivolgerà, magari, ad un fine politico più sostanziale? Si avvicinerà al rugby, presentato pateticamente oggi come il fratello sano del calcio leucemico? Oppure qualcuno penserà davvero che la violenza e l’ignoranza possano cessare di esistere? Un bel film su quest’argomento, per esempio, sarebbe un lavoro importante per il cinema italiano. Mica per risolvere i problemi. No, per trarre dalla complessità del reale tutti gli ingredienti per un bel film. Come, speriamo, farà Gomorra di Garrone tra qualche mese. E non crediamo che il botteghino in quel caso, avrà nulla da ridire. Basta fare le cose a mestiere. Non come queste commediole evanescenti e per di più recitate da quattro smunte facce da fighetti.
se scamarcio trova un pettine e vaporidis una lametta da barba tornano a fare i bamboccini e si comperano il motorino con i soldi dell’ accompagno della nonna!
GIADA NON VUOLE LA GIOSTRINA – di MATILDE PERRIERA
Giada Ferretti, Cristiana Capotondi, studentessa universitaria intelligente ma “schifata da tutti come se avesse la lebbra”; si dedica all’apprendimento delle Scienze della Comunicazione a Roma, ha un curriculum da lode, esiste solo per le sue teorie sui media, scrive con rabbia sui taccuini che nasconde gelosamente. Brufoli, coda di cavallo, occhiali grandi e spessi, abbigliamento dimesso: l’archetipo della secchiona trasandata, contraria a ogni aprioristica forma di mercificazione e di conformazione alla “gioventù bruciata” incapace di “chiedersi cosa hai dentro”. Riccardo Croce, Nicolas Vaporidis, studente svogliato, spaccone, “abituato a stare sulla giostrina”, in conflitto con il padre deciso a tagliargli i fondi perchè deluso dai fallimenti accademici del figlio. Netto il contrasto tra la “sostanza” di lei, “homo sapiens”, impiegata part-time in una trattoria per mantenersi agli studi, e “l’apparenza” di lui, “homo ridens”, spregiudicato “succhiasoldi” che raggiunge il “venti” a stento. Le strade dei due si intrecciano quando Riccardo, per tacitare il genitore e garantirsi la vacanza a Ibiza, chiede a Giada di impartirgli lezioni private. Gli amici gli consigliano di sedurre la ragazza in modo da ottenere le ripetizioni gratuitamente. Le ore passate sui libri li avvicinano. Giada si innamora di Riccardo e, per conquistarlo, si affida allo stilista John Richmond, mettendo in moto uno dei temi centrali della trama in cui l’abbigliamento si trasfigura in protagonista implicito. Le “nuove abitudini vestimentarie” (Marcella Sardo, Moda – identità e comunicazione) trasformano il brutto anatroccolo in teenegers alla moda, ammirata e apprezzata, cigno dalle ali bianche librate nell’aria. La metamorfosi fisica, però, non basta, anche Riccardo deve mettere in discussione i propri valori e maturare insieme a lei una fresca filosofia di vita. Dall’amore reciproco scaturisce una morale profonda: la “nuova” Giada, al di là dei successi, deve recuperare il suo io più profondo ed essere amata per quella che è realmente, mentre il “nuovo” Riccardo, abbandonata, “grazie a lei”, la condotta dissipata, si accorge di amare la Cristiana “di prima”, quella che c’è all’interno. Volfango De Biasi, insomma, ha dato vita a un film di notevole spessore socio-antropologico perchè fa risalire in superficie l’identico patrimonio cromosomico degli adolescenti del XXI secolo, coinvolge il pubblico di giovanissimi e aiuta gli storici a disegnare la nuova Italia in cui, purtroppo, “non si comunica più con la parola ma con l’immagine”. Il tempo della storia, certo, non può coincidere con il tempo del discorso; impossibile, in 107 minuti, elaborare modelli propositivi in un’età in cui “la comunicazione sociale funziona a piramide e al vertice siede chi non fa nulla”. Basilare il messaggio che il regista, pur con le macroscopiche ellissi e l’esteriore entertainment, trasmette; la progressione in climax di emozioni che lo esplicitano, infatti, se, da un lato sottolinea la demistificante etica che antepone l’apparire all’essere “in un mondo abbastanza crudele, anche peggio di come appare nella pellicola” (De Biasi), dall’altro, vuole risalire la china, riallacciare i rapporti umani e far risplendere la luce che alberga in ogni animo.