Saggio, diario o recensione che sia (probabilmente tutte e tre le cose), quest'appassionato articolo sull'ultimo film e sulla parabola (declinante ahinoi!) di Dario Argento, può essere letto on line o con tutta calma scaricandone il file. Leggete anche la recensione del libro-intervista Confessioni di un maestro dell'horror.
Esco dalla sala pieno di rabbia e sconforto dopo la visione de La Terza Madre di Dario Argento, ultimo capitolo tante volte annunciato della trilogia sul matriarcato stregonesco, iniziata nel ´77 con Suspiria e proseguita tre anni dopo con Inferno.
La mia compagna, con la quale ho condiviso l´insostenibile pena della visione, mi istiga a infierire, a dimostrare il coraggio di demolire un mito giovanile, a compiere infine il parricidio troppo a lungo rinviato. Ma io nicchio, poi mi lancio in una malferma difesa d´ufficio. Cerco vanamente di mettere da parte la cocente amarezza della delusione trincerandomi dietro una disamina accalorata dell´epica argentiana, di venire a patti con la mia dissennata, viscerale passione adolescenziale, rivendicando la fascinazione per quella che fu la radicalità iconoclasta e senza compromessi di questo "animale da cinema", ormai poco più che un irriconoscibile simulacro di sé stesso.
Ecco pressapoco il frutto ingarbugliato delle mie riflessioni sul momento: in un paese lacerato dalle bombe nelle piazze, in un´epoca ribelle di sogni avverabili, c´era una volta un giovane terrorista del visuale, un sabotatore del sistema nervoso del corpo-spettatore, un giostraio teppista e degenerato – Entrino lorsignori nel tunnel delle atrocità! L´ingresso è vivamente consigliato ai bambini di ogni età e ai puri di spirito, ma attenzione! Girino alla larga oltre che i deboli di cuore, i puritani, gli ipocriti e i critici alla moda, lacché dell´impegno di maniera – .
Si era nel pieno degli anni´70 e la strategia della tensione si riverberava negli schermi italiani con esiti contrastanti.
Inquieto apprendista stregone alla corte di Sergio Leone e Bertolucci prima, poi riconosciuto maestro della piccola bottega degli orrori cinematografici nostrana, è stato Dario Argento, idolatrato da schiere di seguaci adolescenti in ogni angolo del globo, coccolato dai "Cahiers du Cinema", regista di culto in Giappone e negli Stati Uniti, ma avversato dalla quasi interezza della spocchiosità critica dell'epoca nel nostro paese. Ragioni di un´intolleranza che sono presto dette: ad Argento non veniva perdonato di essere un regista che partiva dalle immagini, che anteponeva la dimensione del visuale a quella letteraria. In un paese ancora così imbevuto di
crocianesimo, questa era già ragione sufficiente di biasimo. Se poi si considera che Argento sceglieva di confrontarsi con un genere di intrattenimento popolare come il thriller e l´horror poi, per i vari Rondi e Rondolino in circolazione la misura era decisamente colma. Giudicato da sinistra uno sciagurato qualunquista, anarco-fascista per la sua riluttanza a sposare la causa di un cinema di impegno sociale tanto di moda all´epoca – la militanza nella sinistra extraparlamentare del giovane Argento non sembrava una garanzia sufficiente, anzi! – considerato da destra provocatore e degenerato, sia per i contenuti (l´accusa, puerile, di incoraggiare le pulsioni omicide e il crimine al cinema, diventa grottesca se pensiamo che nelle strade si sparava e si moriva sul serio tutti i giorni, spesso per mano dello Stato, e la violenza era endemica nella società, anche solo come reazione) sia per la forma, ritenuta troppo sovversiva, irriverente, irrispettosa anche della stessa tradizione del genere di riferimento.
Guidato da un fiuto istintivo nella scelta dell´inquadratura, con una cura maniacale per il dettaglio scenografico, la ricerca del virtuosismo tecnico e dell´invenzione visuale (pre-digitale) assurta a rituale specificamente filmico, preparatorio del climax omicida, la compenetrazione violenta e orgiastica di suoni e immagini non in chiave estetizzante ma dinamizzante l´affioramanto dell´irrazionale e del terrore, Argento ha saputo creare negli anni quel corto circuito tra mestiere e autorialità, tra genere e ricerca formale, tra intrattenimento e sperimentazione, così salutare per il nostro cinema postneorealista, afflitto dalla perenne dialettica impegno-qualunquismo.
Ma si era nei ´70, come detto, e il cinema italiano raggiungeva gli esiti più compiuti del suo processo di svecchiamento con opere coraggiose e libertarie, prima della crisi ineluttabile, accompagnando – e perché dovrebbe essere altrimenti? – il collasso della società italiana nel suo complesso.
Argento non sfugge così all´involuzione degli anni ´80 e al primato del linguaggio televisivo piatto e perbenista come unico depositario della capacità di raccontare il mondo che sta cambiando. Dopo l´ultima riuscita prova di Phenomena dell´85, di stampo certamente più pacificato rispetto al passato, ma ancora riconoscibile come opera dalla caratteristiche intimamente argentiane, inquieta, con sequenze cult memorabili e una certa tenuta di scrittura dell´insieme, con Opera, e poi ancor più
definitivamente a partire da Trauma, che celebra l´inizio del sodalizio-ossessione con la figlia Asia (e forse non è un caso), il regista romano sembra smarrire la propria vena creativa, rimane prigioniero nel pantano dello strerile linguaggio fiction ormai trionfante.
Spogliato così degli impareggiabili deliri visuali, del gusto per le sequenze impossibili, per i barocchismi e gli estremismi formali che erano arrivati a identificarsi e a sostituire la stessa materia narrata, tracciando i confini di un cinema consapevole come pochi altri del suo specifico visivo e cinetico, l´impalcatura argentiana si scarnifica rivelando infine una sostanza inconsistente, solo fuligginosa, un delirio personale fuori dal tempo, incapace di controllare quel dispositivo della tensione e dell´angoscia che gli era così connaturato.
Sin qui i miei ragionamenti sulla storia. Ma c´era chi tra noi, accolita di argentiani della prima ora, non avendo mai perso la speranza di assistere un giorno alla rinascita del maestro, riponeva grandi aspettative ne La Terza Madre, vuoi perché è un progetto che Argento cullava da anni a compimento di una trilogia di culto per i fans, vuoi per la fiducia nell´effetto rigenerante prodotto dalla parentesi dei Masters of Horror, allorché veniva chiamato dai suoi amici americani, Carpenter e Dante su tutti, a dirigere due episodi di una serie per la tv via cavo, accanto ad alcuni tra i massimi esponenti del genere.
Tuttavia ci si doveva chiedere per quale ragione un regista che sembrava avere ormai rinunciato al proprio inimitabile marchio di fabbrica di autore allucinato e radicale, fosse ancora in grado di dimostrare nei due felici capitoli prodotti negli Usa, Jenifer e Pelts, un´innegabile efficacia del proprio talento.
Semplicemente, l´Argento "americano" non si è potuto sottrarre ai ferrei meccanismi produttivi di quel paese che, se in tante altre occasioni sarebbero da considerare biasimevoli per la loro vocazione a limitare le libertà di autori scomodi e non allineati a diktat politico-economici – si pensi alle difficoltà di George Romero a trovare produttori a Hollywood – in questo caso hanno assunto un positivo ruolo disciplinatore delle tendenze solipsistiche ed esasperatamente individualistiche del regista romano.
Come quasi tutte le produzioni Usa, anche i Masters of Horror sono il risultato di un lavoro di squadra, dove vige il rispetto maniacale per l´autonomia delle competenze professionali di ciascun elemento della troupe, dal direttore della fotografia all´ultimo ruolo tecnico. Con una sceneggiatura firmata da altri e sulla quale con ogni probabilità il regista ha avuto un ridotto margine d´intervento, con attori convincenti addestrati nelle scuole di recitazione e non figli (figlie?) d´arte o amici di famiglia, con un ruolo dialettico e attivo di controllo del reparto produzione sull´impostazione del progetto, Argento non è dilagato, non più gravato da ruoli che si ostina ad assumere ma per i quali non ha mai avuto l´inclinazione, primo fra tutti la stesura di sceneggiatura e dialoghi.
Messo a freno dallo Studio System Usa, insomma, all´Argento-autore non è stato accordato il lusso di smarrirsi nelle proprie personali incontenibili ossessioni, consentendogli così di concentrarsi senza distrazioni su ciò in cui detiene indubbie capacità, la cura della messa in scena, arrivando a centrare il bersaglio senza sbavature. E non è un Argento freddo e devitalizzato quello che risulta nei masters, anzi riaffiora qua e là la sua propria inconfondibile cifra di autore visionario e cinetico.
La dura realtà – dura per chi ancora si compiace della tradizione italiana del regista padre-padrone, autore despota e prevaricatore – sta proprio in questo paradosso: quanto meno viene concesso ad Argento in termini di controllo complessivo sulle diverse fasi dell´iter creativo e produttivo, tanto più ne guadagna il film in coerenza narrativa, impatto visivo, incisività d´insieme. Come nel dogma vontrieresco, inomma, una fraintesa libertà espressiva è spesso d´intralcio alla creatività.
Grande attesa per La Terza Madre, dicevamo. Si vociferava che Argento avesse imparato la lezione, che la sceneggiatura se la fosse fatta scrivere dagli "americani" mentre lui si sarebbe impegnato finalmente nel recupero dei fasti visivi e dei colpi di genio registico di un tempo. Sapevamo pure che avrebbe contato su un cast internazionale di tutto rispetto, Philippe Leroy e Udo Kier su tutti, e si aspettava il grande ritorno di Daria Nicolodi.
E poi. La sicurezza della colonna sonora curata dal grande Simonetti, l´ambientazione romana di cui Argento aveva saputo cogliere come pochi certe arcane suggestioni, la forma-shock dei precedenti capitoli della trilogia Suspiria e Inferno che avrebbe potuto fornire preziosi spunti, con i suoi cromatismi accesi, le suggestioni oniriche e antinaturalistiche.
Ebbene, niente di tutto questo si è tradotto in materia viva, pulsante, e Argento ha mancato ancora una volta di mettere a frutto la lezione di umiltà imparando dagli errori del recente passato.
L´intreccio, pretestuoso come d´usanza nel cinema argentiano, muove la sua fragile tessitura narrativa a partire dal disseppellimento nel cimitero di Viterbo di un´antica urna di origini misteriose. Trasportata a Roma per essere studiata e incautamente aperta, sarà il cavallo di Troia a partire dal quale l´ultima sopravvissuta delle tre sorelle fondatrici della stregoneria, Mater Lachrymarum, tenterà di ristabilire il suo ugubre dominio sulla città, trascinandone gli abitanti in un vortice di violenza cieca e irrazionale. L´unica ad apparire in grado di porre rimedio all´esplosione trionfante del Male è Sarah (Asia Argento), figlia di Elize (Daria Nicolodi), strega bianca uccisa anni prima da Mater Tenebrarum (in Inferno, è la contessa malata che viene assalita dai gatti e poi accoltellata). Mentre tutt´intorno vengono a crollare le residue certezze razionali e la civiltà stessa sembra destinata al disfacimento e al dolore, Sarah, con l´aiuto dello spirito-guida di Elize, compie i primi incerti passi nell´occulto, assumendo gradualmente la consapevolezza dei propri poteri che, una volta sotto controllo, le consentiranno di ingaggiare lo scontro finale con la strega e liberare la città dal sortilegio.
Nonostante il tentativo di nobilitazione della materia narrata attraverso la deliberata adesione a una tradizione letteraria "alta", ossia le fantasie oniriche di Thomas De Quincey nel suo Suspiria De Profundis, il riferimento formale più diretto per la trilogia delle Madri si inscrive nelle suggestioni della favolistica per l´infanzia, passate al setaccio dell´immaginario in technicolor disneyano. In questo contesto lo sfoggio di tradizione esoterica, le citazioni in latino, i riferimenti all´iconografia mitologica,
lungi dalla presunzione di voler presentare una qualche visione misterica compiuta, appaiono unicamente strumentali a rafforzare la pura meccanica della paura, mossa dall´oscuro presagio di ignoto, dall´inquietudine per la percezione di una remota minaccia primigenia. Argento, che fin dai tempi dell´uscita di Suspiria dichiarava con l´abituale disarmante candore "quand´ero piccolo avevo paura delle streghe … anche per via di Biancaneve e i sette nani, un altro film che mi impressionò moltissimo", non si è mai appassionato alla concatenazione logica degli eventi nei suoi film, prediligendo piuttosto la profondità opaca e conturbante delle fiabe, una dimensione alogica in cui ogni steccato di verosimiglianza è abbattuto in favore di una struttura pre-narrativa fondata sull´archetipo e sulle libere associazioni.
Anche nei primi thriller, dall´Uccello dalle piume di cristallo a Profondo Rosso, di matrice apparentemente più convenzionale, le palesi contraddizioni, le incongruenze e i vuoti di sceneggiatura, denotavano la sostanziale indifferenza per le regole basiliari del giallo classico, positivista. Peraltro, se il thriller argentiano degli anni´70 conservava ancora la parvenza del racconto indiziario alla Conan Doyle, facendo implodere il meccanismo deduttivo per sovrabbondanza di indizi, false piste e tranelli a minare l´impalcatura razionale dell´insieme, con Suspiria e ancor più compiutamente in Inferno, Argento mollava decisamente gli ormeggi che ancora lo tenevano agganciato al rispetto di un qualche nesso di concatenazione causa-effetto, per approdare a un cinema che somigliava sempre più alla "sostanza di cui sono fatti i sogni", tra delirio onirico e viaggio iniziatico. Anche la progressiva esilità della profondità psicologica dei personaggi si inscrivevano in questa economia dei segni tradizionalmente narrativi in favore del predominio del visivo e di una logica allucinatoria.
Ciò nonostante, mentre nei primi due episodi della trilogia, la palese gratuità dell´intreccio, il disinteresse programmatico di Argento per il plot, si coniugavano a un trionfo della dimensione percettiva e visionaria, portando alle estreme conseguenze il drastico assunto antina
turalistico, nel caso de La terza Madre, come di tutti i precedenti a partire dagli anni ´90 fino a oggi, quelle stesse lacune e illogicità narrative ci appaiono macroscopiche, intollerabili perché non più occultate né dall´impellenza della furia calligrafica, né dalla messa in opera di alcuno specifico congegno di affioramento del terrore.
In una spenta imitazione di sé stesso, Argento ci consegna insomma una scatola vuota, neanche più impreziosita da sapienti incesellature, né tanto meno riempita di quell´ansia conoscitiva e dal tentativo di confrontarsi ai mutevoli parametri della fruizione che hanno caratterizzato il suo periodo più fecondo.
La terza madre non può neanche più inscriversi nel reame della favola, perché alle favole bisognerebbe potersi abbandonare interamente con la fiducia nella natura magica del racconto, nell´andamento incantato e suadentemente ipnotico della narrazione, affinché possano adempiere la loro funzione di nutrimento dell´immaginario. Che in questa parodia involontaria del mito stregonesco, la magia al contrario svolgesse un ruolo surrettizio, si poteva avvertire fin dalle prime sequenze. Diversamente dalla fascinazione per l´occulto che permeava i corpi e i luoghi palpitanti di Suspiria e Inferno, la Roma da serial di scuola di polizia de La terza madre non induce a ritenere che forze oscure si muovano dietro l´apparenza del quotidiano. Pochi accenni a un mondo impazzito, alcuni indubbiamente riusciti dal punto di vista dell´impatto emotivo (si pensi alla madre con il bambino sul ponte)
non sono sufficienti a infondere l´inquietudine per una minaccia globale e incombente. Talvolta anzi, gli effetti malefici più evidenti del dominio della strega si traducono in situazioni involontariamente comiche: mentre i protagonisti in primo piano portano avanti come possono lo svolgimento della vicenda, sullo sfondo capannelli di cittadini infuriati si prendono a pugni come in uno slapstick. La polizia, dal canto suo, anziché porsi problemi di ordine pubblico e tentare di arginare possibili sommosse, sguinzaglia i suoi agenti migliori sulle tracce dell´inoffensiva protagonista, totalmente incuranti dello sfascio collettivo circostante.
Dimensione narrativa principale e cornice ambientale appaiono insomma completamente slegate. Argento avrebbe potuto seguire in questo il proficuo insegnamento del filone horror-apocalittico dell´epidemia di zombi, alimentando la vicenda di un sostrato di angoscia di natura sociale diffusa e crescente, ma nonostante con ogni probabilità le orde dei posseduti che circondano Sarah nel cortile della chiesa siano un esplicito omaggio alla saga dei morti viventi dell´amico Romero, il riferimento rimane del tutto esteriore e non si traduce mai in una chiave espressiva conseguente.
Certo, brandelli dell´Argento a cui siamo stati più legati riemergono qua e là tra le macerie: l´ottusa scimmia che tenta di stanare la protagonista nascosta nel museo richiama il metodico accanimento del pastore tedesco che sbrana Flavio Bucci in Suspiria o l´insistenza del Doberman che rincorre la ragazza fino a condurla nella villa dell´assassino in Tenebre, e in genere si lega a quel misto di attrazione e repulsione per il mondo animale che è una delle chiavi più originali della poetica della paura nel cinema di Argento; e ancora certe figure secondarie come il sobrio servitore con la aligia da sicario che inaspettatamente deforma la bocca in un agghiacciante grido telefonico, o la misteriosa strega giapponese in stile kabuki-punk che si lancia all´inseguimento della protagonista sul treno, riescono a incarnare assai più adeguatamente dei personaggi di primo piano la potenza di un´oscura, irriducibile,
alterità.
Ma questi sprazzi di pura inquietudine non riescono a sostenere lo sforzo di far spiccare il volo a un film nato con ali malformi, povero di invenzione onirica, fiacco di suspence ma soprattutto incapace di parlare il linguaggio della favola. Resta così la malinconia per l´ennesima occasione mancata di vedere un autore italiano, così rigoroso ed esigente nel rappresentare il suo personale universo di ossessioni, vivere una rinnovata stagione di freschezza creativa, come dall´altra parte dell´oceano accade invece oggi a De Palma o Coppola.
Ci piace allora continuare a ricordare l´altro Argento, l´irriducibile sovversivo dello schermo, colui che era in grado come pochi altri autori di cinema di genere di coartare lo spettatore alla logica implacabile delle proprie pulsioni tenebrose, perché il sostrato di angoscia sociale di cui esse si nutrivano era condiviso dal suo pubblico. Oggi sono ben altri gli orrori che si cristallizzano nell´inconscio collettivo, e altri autori di genere sembrano avere la stoffa giusta per incarnarli: Neil Marshall, Miike Takashi, Kurosawa Kiyoshi, Jaume Balaguerò, solo per citarne alcuni. E ciò non di meno ciascuno di loro sicuramente non può che essere debitore al "vecchio" maestro.
grande dariooooooooooo x i suoi fan consiglio di guardarlo in “Tutti pazzi per amore 2“cmnq per il momento ho vst sl profondo rosso:STUPENDOOO!!!ma mia madre mi ha promesso ke qst estate mene fa vdr altri… nn vd l’oraaa sopratt di vdr “La terza madre”=)=)=)=)xP<3<3<3