33, 60 e 1: sono i numeri “chiave” per gustare il musical psichedelico della regista di Frida e di Titus. 33 sono i brani scelti dalla Taymor all’interno del vasto repertorio dei fantastici “Fab Four”, da Let it be a Helter Skelter, passando per gli storici Strawberry Fields Forever, Revolution e Come Together che fanno da fil rouge alla storia d’amore transoceanica tra Jude, un giovane inglese di Liverpool, interpretato dall’eclettico Jim Sturgess, molto somigliante a un giovanissimo Paul McCartney, e Lucy, la bionda e giovanissima Evan Rachel Wood, già protagonista insieme ad Holly Hunter dell’inquietante Thirteen – Tredici anni, scritto da Catherine Hardwicke.
60 sono gli anni al centro dei quali ruota la storia d’amore che si svolge tra il Green Village di New York, Detroit e il Vietnam, salva dal diventare scontata e banale, come l’happy end finale, grazie ai duetti cantati sugli eccellenti testi musicali del “Beatles-pensiero”, arrangiati egregiamente da Elliot Goldenthal. Una storia che gira intorno alle proteste anti belliche, all’aria nuova di sperimentazione nell’arte e nella società e all’arrivo del rock’ n’ roll nella vita scanzonata e molto “musical style” di un gruppo d’amici paradigmatici rappresentanti dei volti d’America: dallo scansafatiche pragmatico Max, fratello di Lucy, interpretato da Joe Anderson (Io e Beethoven di Agnieszka Holland) a Sadie, singer bianca dall’anima soul, in cerca di successo (Dana Fuchs, famosa sulla scena off-Broadway per Love, Janis, dedicato alla cantante scomparsa Janis Joplin), insieme al suo chitarrista di colore Jo-Jo, (Martin Luther McCoy musicista, per la prima volta sugli schermi) che condivide l’amore e la carriera di lei e infine a Prudence, (T.V. Carpio, attrice e ballerina), giovane e minuta americana dai lineamenti orientali che scopre la sua omosessualità nella puritana provincia dell’Ohio, per scappare e cercare altra sorte nella Grande Mela. Sono loro a condividere le esperienze verso la libertà e la maturazione, fino ad arrivare a dividersi nelle idee e nelle scelte personali con l’arrivo della guerra nel Vietnam e la partenza di Max per i drammatici campi di riso e napalm.
Un cast fresco e fuori dagli schemi, fatto di centinaia di giovani e giovanissimi, tra comparse, ballerini, attori e musicisti. Una narrazione che non annoia, per l’azzeccato menù musicale selezionato dalla regista e offerto dai baronetti di Liverpool, ma anche grazie a una regia che non nasconde la formazione teatrale a cavallo tra off Broadway e agitprop della Taymor, ma che, attraverso le scelte fantasiose e in alcuni passaggi anche coraggiose delle immagini, fanno di questa pellicola l’esempio di come il musical sia un po’ come l’Araba Fenice, in grado di rigenerarsi e risorgere, saccheggiando dal teatro senza snaturare il sogno del cinema. Un film che mostra anche come proprio dalla “settima arte”, la musica (seconda perché primigenia), ma anche i suoi generi e la sua storia, debbano ancora essere scoperti, per restituire valore e sostanza anche alla storia della nostra società.
Dimenticavo un numero: 1 come un film davvero originale, semplice, ma innovativo nel genere, che si è visto alla Festa del Cinema di Roma. Uscirà in Italia il 23 novembre prossimo. In fondo “all we need is love”, allora perché perderselo?
Sono d’accordo per lo più, anche se in effetti l’ho trovato un po’ “inutile”, nel senso più letterale del termine.
Gradevole, piacevole, a tratti piuttosto divertente, protagonisti con delle belle facce, una bella presenza scenica… però però, non mi sembra aggiunga molto al già detto, già visto.
Ma in una Festa così povera di film accettabili forse questo basta e avanza.
non sono d’accordo con quanto dice Bals. ci sono stati diversi film interessanti nella sezione extra per esempio. Lumet con Before the devil knows you’re dead, e hoffman e hawke (ethan), o quello di Penn. Ancora Juno di Reitman, una bella tragicommedia, problematica pungente e allegra. mi sono divertito come non facevo da tempo. across the universe cmq da vedere. mi sembra riduttivo valutare i film sul grado di novità.
La visione è un’esperienza personale e (deo gratias) non cedibile.
Per quanto mi riguarda, ho visto tanti film brutti alla Festa, qualcosa di gradevole (Foreldre/Parents di Bragason, Across the Universe appunto) e nulla di esaltante.
Onestamente non ho visto Lumet e Susanne Bier all’esordio hollywoodiano perché preferisco vederli in sala quando usciranno, e dare più spazio a quello che nelle sale (forse) non arriverà.
Il film della Taymor è capitato, lo trovo banalotto per plot ed effetti scenici ma godibile.
Non si giudica sul grado di novità, sono d’accordo, ma sulla noia e la sensazione di dejà vu che un film (individualmente sia ben inteso) può darci, quello sì.