Laurent de Bartillat partecipa con il suo primo lungometraggio al Concorso di Cinema 2007. Quello che i miei occhi hanno visto da spettatore, che è anche il titolo del film in italiano, è un'autobiografica lettura intensa e partecipata della sua esperienza in Storia dell’Arte alla Sorbona. E’ come se gli studi filologici lo avessero segnato a tal punto da indurlo a 44 anni ad un ripensamento sui metodi di approccio all’arte.
Lo sguardo allucinato della protagonista Lucie, anch’essa studentessa di storia dell’arte, incrocia gli sguardi dei personaggi del pittore Watteau così come quelli del suo professore, così come quelli del suo nuovo amico Vincent, mimo per necessità perchè muto dalla nascita. Questi sguardi la appagano, le danno sicurezza sulla concretezza di uno sguardo direzionato ed esoressivo (da esorare: di chi prega intensamente, supplica).
Quando si imbatte in una raffigurazione di donna di spalle, le sue realtà vacillano come se senza uno sguardo non ci possa essere “il guardare”, l’osservare con attenzione. Con ostinata noncuranza per i problemi quotidiani, scambia la vera condizione di ricercatrice frustrata con la verosimile condizione del linguaggio artistico, arbitrario, magico, favolistico. In un momento in cui l’arte, particolarmente con Watteau, si affaccia al Settecento allusivo e metaforico dal Seicento narrativo e descrittivo.
La raggiunta identità della figura femminile non "sguardata" ma neanche ben guardata, giustificano l’ottima fotografia e il montaggio rapido e stratificato: successive scansioni alla ricerca della prima impressione sulla tela (o sulla pellicola), quella rivelatrice.
Come direbbe Girard ogni festa finisce male e così morirà il muto Vincent e ne uscirà male anche l’ambiguo professore. Il muto mimo aveva ingannato l’ingenua Lucie con i suoi sguardi solo sostitutivi di altri linguaggi ed il vecchio barone della Sorbona aveva ingannato la stessa Lucie incoraggiandola sulla strada della filologia nemica dell’aura che notoriamente ha sempre circondato l’arte antica.
Un innamoramento forse non corrisposto del giovane Watteau non giustifica il taglio da thriller, i personaggi così poco delineati non aiutano la pur brava Sylvie Testud ad essere credibilmente schizofrenica.
Un film che va comunque guardato piuttosto che sguardato.
Brava la Testud. Da vedere anche nel film tedesco “Jenseits der Stille” (Aldilà del silenzio) come l’interprete del silenzio.