To a Land Unknown di Mahdi Fleifel
QUINZAINE DES CINÉASTES

CONVERSAZIONE CON IL REGISTA

Dopo una serie di cortometraggi documentari e il lungometraggio documentario A World Not Ours (2012), attraverso i quali ha abbordato diverse sfaccettature della vita dei migranti palestinesi alla ricerca di un futuro migliore in Europa, Mahdi Fleifel, pluripremiato regista danese-palestinese,  debutta nella fiction con To a Land Unknown. Il film, presentato in prima mondiale alla Quinzaine des Cinéastes a Cannes, è stato girato interamente nel centro di Atene e racconta le vicissitudini di due rifugiati palestinesi, Chatila (Mahmood Bakri) e Reda (Aram Sabbah), che cercano disperatamente di raggiungere il loro paradiso terrestre: la Germania. Con uno sguardo crudo sullo sradicamento e sull’angoscia della sopravvivenza, il film ci mostra con realismo ed intensità il vero prezzo dell’esilio, i sacrifici e i limiti che si possono oltrepassare per conquistare, forse, un posto al sole. To a Land Unknown è una cronaca sconvolgente che riflette la brutalità e la disperazione di una realtà spesso invisibile.

La conversazione con il regista si è svolta a Cannes, nel corso di un junket dedicato al film e alle tematiche che affronta.

Il tuo primo lungometraggio, A World Not Ours (2012), era un documentario e il suo finale – gli ultimi dieci minuti – è stato girato ad Atene, dove segui il tuo amico Abu Eyad. Anche il tuo nuovo film, To a Land Unknown, è ambientato ad Atene. Lo consideri una sorta di continuazione di A World Not Ours in forma di fiction?

Sì, assolutamente. Le riprese di A World Not Ours mi hanno messo di fronte a una nuova realtà quando ho seguito Abu Eyad in Grecia e l’ho trovato lì, insieme ad altri esiliati dai campi del Libano e della Siria – ma anche a migranti provenienti da Pakistan, Afghanistan… Tutte queste persone dovevano attraversare la Grecia per arrivare nell’Europa centrale o settentrionale. La Grecia è la porta d’ingresso dell’Europa. Quell’esperienza è stata anche il mio primo contatto con il paese: il mio amico era fuggito dal campo in Libano e io l’ho seguito con la videocamera fino in Grecia. In questo modo sono venuto a contatto con un mondo fino ad allora completamente sconosciuto per me.

Anche se To a Land Unknown è fiction, pensi che rifletta la realtà?

Per me, la distinzione tra documentario e fiction nel cinema è più ‘burocratica’ che sostanziale. La fiction però mi ha dato la possibilità di usare liberamente la mia immaginazione e di controllare completamente la messa in scena, l’illuminazione e la composizione dell’inquadratura. Ma è anche un genere impegnativo – se qualcosa appare finto, lo spettatore si distacca. Al contrario, il documentario è più “tollerante”. Tuttavia, il mio obiettivo era mantenere il senso di immediatezza e l’autenticità dei personaggi, come se fossero persone reali.

Qual è stato il punto di partenza di questa storia? Cosa ti ha spinto a raccontarla cinematograficamente?

Negli ultimi dodici anni ho seguito quattro uomini: uno di loro è Abu Eyad, che compare in A World Not Ours e in Xenos, e ora vive in Germania. Un altro è Reda, che è stato in A Man Returned e Three Logical Exits. Come ho detto, purtroppo è morto ad Atene. Un terzo è scomparso da qualche parte in Svezia, abbiamo perso i contatti. Il quarto venne a Londra, dove vivevo allora, e mi raccontò questa storia: mi disse che quando avevano attraversato il confine con la Macedonia, lui e i suoi amici avevano con sé 20.000€, ma avevano lasciato quattro uomini legati e imbavagliati in un appartamento sotterraneo ad Atene. Gli chiesi: «Cosa vuoi dire?» E lui rispose: «Devo raccontarti tutta la storia dall’inizio.» E allora mi narrò questa storia folle, incredibile, cinematografica. Da allora ho cercato di trovare la forma giusta, il modo di raccontarla. Per molto tempo – negli ultimi dieci anni, ovvero quanto mi è servito per realizzare questo film – ho sperimentato con l’idea di un documentario ibrido basato su questa storia. Pensavo che forse avrebbe potuto raccontarla di nuovo davanti alla telecamera e io avrei potuto girare delle ricostruzioni. Poi ho pensato che forse poteva raccontarla un attore, mentre io ne ricreavo alcune scene. Ma alla fine ho capito che sarebbe sembrato uno di quei noiosi whodunit su Netflix. Non mi interessava nulla del genere. A un certo punto, dopo aver lavorato da solo sull’idea, si è unito a me Jason McColgan – il mio co-sceneggiatore – e infine anche Fyzal Boulifa, e credo che lì qualcosa si sia sbloccato, grazie alla sua straordinaria capacità di scrittura. L’idea iniziale era di fare un adattamento di Men in the Sun di Ghassan Kanafani, ma poi abbiamo pensato anche a Of Mice and Men di John Steinbeck e ai personaggi di George e Lennie. Quando ho iniziato a parlarne con Fyzal, lui ha subito visto i personaggi di Chatila e Reda da un’altra prospettiva e così siamo riusciti a trovare la forma giusta per raccontare questa storia. Volevo mostrare quegli attori autentici – method actors – come Robert De Niro o Marlon Brando, ma poiché in Palestina non abbiamo una tradizione di scuole teatrali o drammatiche, dovevo contare sulle personalità e le caratteristiche di attori non professionisti che potessero incarnare questi personaggi. Ho lavorato molto sul casting e ho organizzato molti laboratori con i ragazzi per creare legami tra loro. Poi Mahmoud Bakri, che interpreta Chatila, e Aram Sabbah, che interpreta Reda, hanno vissuto insieme in Grecia per circa un mese prima dell’inizio delle riprese, nel quartiere dove si sarebbe girato il film. Quando abbiamo iniziato a girare, erano già parte della città e la storia era entrata nella loro pelle.

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