THE SUBSTANCE di CORALIE FARGEAT

Sarebbe decisamente sbagliato descrivere The Substance, lo straordinario film di Coralie Fargeat, in concorso a Cannes, semplicemente come un body horror – certo, i corpi ci sono, e c’e anche una buona dose di orrore, ma in realtà si tratta di una satira acuta, amara e al tempo stesso esilarante sull’invecchiamento, sul nostro rapporto con il corpo che invecchia e, in fin dei conti, anche con la nostra anima, che invecchia pure.

Con il suo sguardo di donna, Fargeat si concentra con sensibilità sui corpi femminili e esplora cosa significhi, per una donna, invecchiare e diventare – inevitabilmente – meno attraente. Nella nostra società valgono ancora, innegabilmente, degli standard diversi nei confronti dell’invecchiamento: un uomo sulla cinquantina, un uomo maturo, è spesso percepito come affascinante e seducente – in lui l’esperienza accresce il carisma – mentre una donna della stessa età è comunemente considerata come “superata”, soprattutto nel mondo dello spettacolo, ma non solo. È un dato di fatto, sempre più donne sono disposte a fare di tutto pur di rimanere “competitive” in un mercato che idealizza la giovinezza e non consente a nessuna di invecchiare in modo naturale e sereno.

Partendo da questa amara constatazione, la sceneggiatrice e regista Coralie Fargeat sviluppa con estro e grinta una favola crudele ed assurda su una donna che si confronta con questa problematica e che è pronta a buttarsi capo e collo in un esperimento molto discutibile pur di affrontarla.

Incredibilmente inventivo, sostenuto da un ritmo mozzafiato e da un’energia impressionante, costruito attorno alle straordinarie interpretazioni delle sue due protagoniste – Elisabeth e Sue – splendidamente interpretate da Demi Moore e da Margaret Qualley, The Substance ci travolge con una messa in scena brillante, colorata e sgargiante.

Demi Moore, che porta come donna nella sua vita e come attrice un questionamento sul corpo, è semplicemente meravigliosa e toccante in ogni momento del film e certamente ci offre qui una delle più belle performances di tutta la sua carriera, mentre Margaret Qualley ci seduce e ci turba con la sua prepotente impertinenza, indossata con perfetta convinzione.

Lungi dal cercare l’effetto facile, la sceneggiatura è finemente cesellata non solo per quanto riguarda la struttura della narrazione in sé ma, soprattutto, per la finezza con cui la regista sa osservare e creare una serie di situazioni perfettamente verosimili nella loro apparente assurdità, focalizzandosi su una lunga serie di dettagli e di comportamenti perfettamente pertinenti e up to the point. Caustica, precisa, piena di risorse e portatrice di un forte messaggio di solidarietà femminile, la sceneggiatura di Coralie Fargeat è stata premiata con la Palma d’Oro.

La prima inquadratura ci da subito un’idea dell’universo filmico in cui stiamo per entrare: ripreso dall’alto in basso su una superficie bianca vediamo un uovo di gallina crudo. Nel centro dell’immagine campeggia l’arancione del tuorlo e tutto intorno la materia translucida dell’albume, una siringa inietta lentamente una sostanza nell’albume che di li a poco inizia a tremare, si fende e poco dopo lascia emergere un altro albume, un clono, al suo lato. Nella scena successiva scorgiamo l’immagine di una donna di spalle, alta e giovane, tutt’intorno si percepisce una folla entusiasta e i flash dei fotografi. Nell’inquadratura seguente vediamo la fabbricazione – sempre filmata dall’alto in basso- di una nuova stella sul marciapiede della famosa hall of fame di Hollywood. In ultimo viene posto il nome dell’attrice: Elisabeth.

Dapprima i passanti si fermano ad ammirare la stella con il suo nome e si fanno fotografare davanti ad essa, man mano che il tempo passa, le gettano solo un breve sguardo fugace e non si fermano più- il cemento stesso inizia ad avere sempre più crepe ed il nome in ottone non brilla più- poi vi camminano sopra di corsa, ed infine ad uno dei passanti cade di mano un hamburger e la stella di Elisabeth si ritrova malamente imbrattata di carne tritata, ketchup, maionese e foglie d’insalata. Il cemento stesso e pieno di crepe ed il nome in ottone non brilla più.

In questo breve ed intenso preludio sta già detta tutta la storia di The substance, la parabola di un’ascesa al successo e di un lento declino.  Una volta acclamata per la sua bellezza, la star, che ha conosciuto tempi migliori, sempre molto bella e perfettamente in forma anima, ormai da anni, un programma televisivo di aerobica.

La vediamo durante la registrazione del programma, sorridente e piena di energia, vestita con completo tipico degli anni ottanta – che ci fa molto pensare ai programmi di aerobica lanciati in quegli anni da Jane Fonda.  Finita la registrazione xx e particolarmente allegra perché e il suo compleanno, attraversa un lungo corridoio tappezzato da una lunga serie di gigantografie che celebrano ogni anno del suo programma. Per un disguido finisce per andare nelle toilette degli uomini e li sorprende una conversazione telefonica del suo capo – un feroce ed arrogante Denis Quaid, deliziosamente senza scrupoli, che racconta di volere sospendere immediatamente il programma di Elisabeth, per sostituirla con una ragazza giovane e fresca, un volto nuovo ed un corpo perfettamente in forma.  Il casting inizia già il giorno dopo.

Da un momento all’altro il mondo di Elisabeth crolla, la donna scossa e costernata, prende la macchina per tornare a casa avvolta nel suo magnifico cappotto giallo canarino- (forse una reminiscenza/un omaggio della borsa gialla di Marnie di Hitchcock) ma, sconvolta dalle notizie che ha appena appreso, finisce per avere un incidente e si ritrova in ospedale. L’assistente che si prende cura di lei è un uomo giovane particolarmente avvenente che inizia a tastarle la spina dorsale dicendo che lei potrebbe essere una candidata ideale. “Candidata per cosa?”, chiede la donna, senza ottenere alcuna risposta ma di li a poco una voce misteriosa le telefona, proponendole una sostanza straordinaria che potrebbe cambiarle la vita dando origine ad una versione più giovane e migliore di sé stessa. Ad una condizione: a settimane alterne dovrà vivere con il suo corpo di oggi e la seguente con quello giovane, per fare poi di nuovo lo switch trascorsa una settimana.   Dapprima indifferente alla strana proposta, la nostra eroina finisce per ripensarci su e si reca ad un misterioso indirizzo dove, dietro la tapparella mezza abbassata di un magazzino in disuso scopre una sala immacolata con varie caselle postali fra cui quella con il numero 503 che è la sua. All’interno c’è un kit con le istruzioni per l’uso: il primo passo e una puntura con la ‘sostanza’, il secondo contiene una serie di punture con uno stabilizzatore ed un kit nutrizionale per entrambe le versioni, poi la puntura per lo switch ed infine un

‘ingiunzione: quella di seguire i passi indicati alla lettera e di non dimenticarsi mai che si tratta sempre di un’unica e stessa persona!

Ritornata a casa, in una magnifica dimora retro-futurista su una collina con una vista meravigliosa sulla citta, Elisabeth decide di fare la puntura, dapprima non succede nulla ma poi improvvisamente il suo corpo e preso da convulsioni, la donna cade per terra, la sua schiena si fende lungo la spina dorsale e dal suo corpo emerge una creatura meravigliosa, una ragazza giovanissima, con un sorriso smagliante ed un corpo perfetto.   Mentre il ‘vecchio corpo’ giace inerte sul suolo del bagno, la ragazza pensa bene di ricucire alla mala peggio la lunga ferita sulla spina dorsale e poi, felice ed eccitata, si reca al casting. L’idea di xx infatti era proprio questa; ricuperare il suo lavoro trasformandosi in una versione più giovane di sé stessa.

Inutile dire che la versione giovane di Sue – interpretata stupendamente con maliziosa crudeltà da Margaret Qualley, una ‘bimbo’ maliziosa e falsamente ingenua- finisce per avere la parte. La regista non lesina nel mostraci la differenza fra il corpo – certo molto ben intrattenuto di Demi Moore- e quello giovane di Qualley con un’inquadratura impietosa e rivelatrice sui glutei dell’una e dell’altra. Ma quanto può essere importante questo dettaglio, e perché deve essere cosi importante nella nostra società? E la domanda implicita che il film porta in sé.

Da questo punto in poi la vicenda decolla letteralmente verso un inesorabile e sorprendente escalation finale. Le due versioni, quella giovane e quella vecchia, nonostante la precisa ingiunzione contenuta nel kit della “sostanza’, tutt’altro sono che un’unita armonica. Di fatto una versione fagocita l’altra come un parassita aggressivo e crudele, dimenticando di fatto di fare parte di un’unica persona, di un ‘unita.  Un antagonismo spietato si sviluppa fra i due prototipi, esemplari, quello maturo e quello giovane, trasformandosi in una vera e propria lotta per il potere e la sopravvivenza. La versione giovane sembra avere il vento in poppa, ed avere preso in mano le redini della situazione ma anche quella anziana, da parte sua, non ha ancora detto la sua ultima parola.

La regista, descrive questo rapporto con una dovizia di particolari brillanti, illustrando con grande arguzia e con una spassosa iperbole una spietata lotta generazionale. 

Un carosello irrefrenabile di episodi e situazioni sempre più estreme ed esilaranti la regista ci conduce verso un esito grandioso che culmina in un vero e proprio bagno di sangue catartico. In quest’epopea nella quale risuonano gli archetipi di ogni patto diabolico che, dal Faust in poi, gli uomini hanno concluso per ricuperare la loro gioventù perduta, Fargeat si serve del mito per crearne una versione nuova, femminista per celebrare la donna, la sua dignità e il suo diritto ad essere amata ed ammirata durante tutto il corso della sua vita per quello che veramente è, e non solo per il suo aspetto fisico. 

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