CANNES 77

SOMETHING NEW, SOMETHING OLD, SOMETHING BORROWED di HERNAN ROSSELLI

Quinzaine des Cinéastes

Conversazione con il regista.

Com’è nato questo progetto cinematografico?

Hernán Rosselli: Questo film è profondamente legato al luogo in cui vivo, a Buenos Aires. Le sue radici affondano proprio lì, e tutti i protagonisti del film provengono dal mio quartiere. In concreto, tutto è cominciato quando avevo appena finito il mio secondo lungometraggio. Maribel – la protagonista di Something New, Something Old, Something Borrowed – è venuta da me con una scatola piena di videocassette, contenenti una grande quantità di materiale girato da suo padre tra la metà degli anni ’80 e il 2000. Quando ho visionato quei filmati, ho capito immediatamente che si trattava di qualcosa di eccezionale. Ai miei occhi non erano semplici filmini di famiglia, ma il frutto di un vero cineasta amatoriale. Così le ho detto: “Per me qui c’è un film! Non so ancora che tipo di film sarà, ma c’è sicuramente un film da fare!”È importante dire che nella vita la famiglia Volpato non ha nulla a che vedere con il giro delle scommesse clandestine. Ma ogni volta che parlavo con Alejandra e Hugo Volpato, i genitori di Maribel, il discorso finiva sempre sul cinema. Amavano discutere di quello che io chiamo i “classici della classe operaia” degli anni ’80: Il Padrino, Quei bravi ragazzi, C’era una volta in America. A quel punto ho cominciato a riflettere sul legame tra i sogni e i desideri della piccola borghesia e i film di gangster. Così ho proposto loro: “Facciamo la nostra versione di Quei bravi ragazzi, o una sorta di Padrino di quartiere!”

Com’è stato lavorare con attori, immagino, non professionisti?

Durante la scrittura del film, a metà del processo, abbiamo iniziato le prove. Maribel è un’artista nella vita reale; aveva recitato da adolescente, ma aveva smesso dopo un attacco di panico avuto sul palco. Tuttavia, durante le prove, mi sono reso conto che era un’attrice straordinaria. Ho cercato di costruire un cast che fosse un mix di attori professionisti e non professionisti. Tutti i professionisti del film vengono dal mio stesso quartiere, alla periferia di Buenos Aires – sono attori abituati a esibirsi in teatrini di varietà o nei café-concert. Per me queste persone incarnano ancora lo spirito originario del cinema. Abbiamo lavorato con una troupe ridotta, cercando di creare un ambiente intimo, confortevole, basato sulla fiducia.

Il titolo del film sembra una metafora. È così?

Sì, assolutamente. Per me il titolo è una metafora del modo in cui il film è stato realizzato: un riflesso della varietà di materiali e formati assemblati per raccontare questa storia. Ma uno dei temi centrali del film è anche il funzionamento dell’economia e il rapporto tra generazioni diverse, con le tensioni che questo comporta nel mondo degli affari. Nel contesto delle scommesse clandestine, ad esempio, esiste una divisione di genere ben definita: le donne gestiscono l’amministrazione, mentre gli uomini rappresentano il “braccio forte” dell’attività. Quando il patriarca – o se vogliamo, il padre – muore nel film, si scatena un conflitto tra due donne, la madre e la figlia, entrambe intrappolate in mezzo a una potente organizzazione maschile fatta di poliziotti corrotti e gang rivali.

Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sulla situazione attuale del gioco d’azzardo in Argentina, ora che al governo c’è Milei.

Oggi questo settore è in crisi in Argentina, a causa dell’esplosione delle scommesse online. Oggi chiunque può puntare denaro tramite applicazioni digitali, e per me questo è un segno che il capitalismo si muove sempre più in fretta. Ci sono anche molti problemi sociali, perché sempre più persone diventano dipendenti dal gioco. Per questo motivo, la polizia ha cominciato a trattare le scommesse come un crimine. Tuttavia, il gioco legale porta moltissimo denaro nelle casse dello Stato, finanziando le attività governative e i partiti politici. In realtà, oggi i soldi del gioco sono finiti in “altre tasche”, e per questo la campagna ufficiale dello Stato contro le scommesse clandestine ha un carattere quasi fittizio.

Non ho mai capito davvero cosa sia un “bookie”. Potresti spiegarmelo?
In realtà esiste qualcosa chiamato “Lotteria Nazionale”, presente in quasi tutti i Paesi: una forma di scommessa regolamentata il cui ricavato, grazie a leggi nate nel XX secolo, viene destinato alla beneficenza. È come se fosse qualcosa di profondamente umano, una passione innata per il gioco d’azzardo. In questo senso, i proventi di casinò e lotterie vengono incanalati dallo Stato verso il bene comune.
Ma con la “quiniela” clandestina la situazione cambia: qui parliamo di gruppi che si organizzano parallelamente, utilizzando gli stessi numeri estratti della lotteria ufficiale. Solo che raccolgono le puntate autonomamente: magari bussano alla porta di casa tua, o passano nel tuo negozio, e ti chiedono se vuoi scommettere. Se vinci, ti pagano il premio. Ma spesso, quella vincita non arriva mai. Quindi, in pratica, è tutto guadagno per loro.

Ma allora perché qualcuno dovrebbe scegliere di scommettere con questi privati, e non con lo Stato?
È semplice: io passo dove lavori, entro nel tuo negozio, ti propongo una scommessa. Ti chiedo a cosa vuoi puntare. Se non hai contanti, va bene lo stesso: ti dico “paghi dopo”, e se vinci ti pago subito. Così si crea un rapporto di fiducia, una sorta di credibilità. Pagare i premi, per chi gestisce questo giro, è fondamentale.

E tutto questo emerge chiaramente nel film, anche nella rappresentazione del rapporto strettissimo tra chi gestisce le scommesse e i propri clienti.
Esatto. A volte ti prestano anche dei soldi. È come se si instaurasse una relazione di dominio carismatico, quasi un potere seduttivo. Una dinamica di potere molto sottile ma reale.

Cosa ti affascina di questo mondo? Cosa, in particolare, ti coinvolge personalmente?
Mi interessa capire come funziona il capitale. Questo sistema, per me, è ancora “pre-capitalista”. Tutto nasce ai margini della legalità. Anche il cinema, per come lo conosciamo oggi, è nato così. Un esempio: Thomas Edison aveva il brevetto del cinematografo, quindi chi voleva girare un film doveva pagargli un canone. A un certo punto, però, alcuni produttori si rifiutarono di farlo. Si trasferirono sulla costa ovest degli Stati Uniti e iniziarono a produrre indipendentemente. Edison allora assunse delle bande di picchiatori per costringere i ribelli a pagare. Ma anche i produttori indipendenti risposero assumendo altre bande per difendersi. Ecco, l’origine dell’industria cinematografica è quasi mafiosa nella sua logica.
Fin dagli inizi del Novecento, la storia del cinema è costellata di episodi di minacce, violenze, omicidi. Qualsiasi attività, nel capitalismo che conosciamo oggi, nasce ai margini della legalità. I pirati, i corsari: anch’essi operavano per accumulare capitale con il permesso – o la connivenza – dello Stato.

Nel tuo film, questo mondo non viene raccontato nel cuore della capitale, ma in quartieri più periferici. Perché questa scelta?
In realtà mi interessa un certo grado di autobiografia. Non mi piace il cinema troppo sociologico o distaccato. Il motore iniziale di questo film è mia madre: quando i miei genitori si separarono, lei iniziò a lavorare come data entry per un’organizzazione di scommesse clandestine. Quindi ho un legame diretto, personale con questo ambiente. Conosco molte persone che ci lavorano. Per me, questo film ha qualcosa di amatoriale, nel senso più puro e affettuoso del termine: racconto persone che conosco, che amo. Non riesco a mantenere una distanza morale dai protagonisti. E questa prossimità, questa intimità, credo si senta nel film. Lo stesso accadeva in Mauro, il mio film precedente: il protagonista era un mio compagno di liceo. E qui Maribel, la protagonista, è un’amica di lunga data. Anche tutti gli altri personaggi che le ruotano intorno sono persone che conosco da anni. Questo per me è essenziale.

Il suono del film è molto complesso e interessante. Come sei riuscito a ottenerlo? E come hai lavorato in fase di montaggio per riuscire a mescolare tutti questi materiali e tempi diversi?

Il lavoro sul suono e la questione della dosificazione delle informazioni rappresentano l’ambizione più grande del film. Anche se all’inizio può sembrare un’opera caotica, in realtà non lo è. Dal mio mestiere, come montatore, nasce una sorta di fiducia nella partecipazione attiva dello spettatore, e nei limiti e nelle possibilità del cinema in termini di trasmissione delle informazioni. Il montaggio l’ho condiviso anche con Federico Rotstein e Jimena García Moll, due montatori con cui collaboro da molti anni. L’idea, per lo meno nei primi venti minuti del film, era quella di far entrare lo spettatore in un’esperienza che andasse oltre la classica narrazione, una specie di somministrazione omeopatica di informazioni in piccole dosi, che lo spettatore raccoglie e conserva, finché tutto quel materiale inizia ad avere un senso e a riorganizzarsi. E nel mezzo ci sono anche delle piccole digressioni. Quindi, per me, è stato importante imparare a gestire questa dinamica: spesso, lo spettatore capisce cosa è successo solo alla fine di una scena, o addirittura all’inizio della scena successiva. Come spesso accade nel cinema, c’è una sorta di dislocazione delle informazioni, come quando si inizia con un’inquadratura ampia per poi stringere. Lo spettatore capisce a posteriori ciò che ha visto, sia all’interno della singola scena che all’interno della sequenza. E questo è stato il principio guida del montaggio: lo spettatore deve accompagnare i personaggi, e in particolare Maribel, in una sorta di viaggio emotivo, un percorso che si snoda lungo tutto il film come un’esperienza emotiva e narrativa insieme.

Julián Rejl, presentando il tuo film, ha detto che è un’opera “low-fi”. Io vengo da una generazione che conosce quei suoni, e li riconosco: ad esempio, il suono di un fax. Sono suoni che sono spariti del tutto, così come certi tipi di immagini…

In genere, i film che realizzo sono stati possibili grazie alla comparsa di videocamere a metà strada tra il materiale professionale e quello amateur. Questo mi ha permesso di girare molto.  Per esempio, quando ho iniziato a girare Mauro, all’inizio degli anni 2010, sono arrivate sul mercato le prime camere fotografiche che permettevano anche di filmare. Così era possibile utilizzare degli obiettivi da cinema ma in un formato quasi casalingo, e questo mi ha permesso di girare quel film. Ogni progresso tecnologico può aprire le porte del cinema a persone che vivono in periferia. Questo film esiste anche perché – come dicevo prima-  Hugo Volpato, il padre di Maribel, ha avuto la possibilità di filmare. È stato uno dei primi nel quartiere a fare dei film di famiglia e di mostrarli poi agli amici in casa sua. .

L’estetica del tuo film richiama proprio quell’epoca, gli anni Novanta…

Quando pensavo al montaggio del film, mi dicevo: mi piacerebbe fare anche la musica. Ma allo stesso tempo non volevo comporre qualcosa di originale, preferivo usare, ad esempio, la musica di Bach o del barocco, e soprattutto la fuga. Questo mi ha permesso di dare alla narrazione un respiro epico, simile a quello delle storie dei figli di immigrati, a quei racconti che parlano delle origini con uno slancio epico e affettuoso insieme.

Per me il tuo film assomiglia a un requiem…
Sì, ha come una sorta di respiro elegiaco, no? Come se ci si stesse avvicinando a un mondo che sembra finire, o che non è più come prima. E allora ho pensato: beh, se posso usare la musica di Bach, sarà anche in un formato un po’ casalingo, come quel tipo di suono elementare che è un po’ il suono del segnale telefonico. Quindi c’è una sorta di coesione formale: il suono del modem e quello degli impulsi telefonici somigliano alla melodia del barocco, che diventa parte dell’estetica del film. Lì si uniscono un po’ tutte le tradizioni del film.

Qual è stata per te la parte più difficile nel processo di realizzazione del film?
Credo sia proprio questa: riuscire a sostenere il desiderio di fare un film e l’ansia del team tecnico e degli attori che non sanno bene cosa si stia facendo — perché, per esempio, molti degli attori avevano visto Mauro, che aveva avuto un certo impatto e un certo riconoscimento. Questo, per me, permette che il gruppo resti unito lungo molti anni. Ma insomma, questa è principalmente la sfida, no? Sostenere il desiderio di portare avanti un progetto nel corso di quattro o cinque anni. È questo il tempo che serve per fare un progetto del genere, ovviamente!

Per te il finale della pellicola è un happy end? Sì, per me è decisamente un lieto fine, anche se aperto. Nei gangster movie degli anni ’30 e ’40, i protagonisti che cercavano di uscire dall’organizzazione venivano uccisi, finivano in prigione o sulla sedia elettrica. Con l’arrivo della controcultura, tra gli anni ’70 e ’80, i film di gangster iniziano a riflettere il funzionamento della società e il rapporto tra criminalità e capitalismo. Anche il mio film segue questa linea. Il finale è aperto, ma in esso Maribel compie una scelta molto forte, che per lei rappresenta una nuova forma di libertà. Per me era fondamentale rimanere fedele al genere, ma anche vicino ai personaggi e ai legami familiari: tra padri e figli, madri e figlie. In fin dei conti, questo è soprattutto un film sull’intimità e sui

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