Viene dalla sezioni Orizzonti l’unica segnalazione degna di nota del nostro cinema. Si tratta ancora una volta di un documentario, segno che il genere sta vivendo nel nostro paese una stagione di piena rinascita creativa, riscontrando sempre maggiormente l’interesse di un pubblico non più soltanto di addetti ai lavori. Andrebbe cullata, sostenuta questa rinascita, sia da parte dello Stato con scuole di formazione e adeguati meccanismi di appoggio finanziario, che da parte delle produzioni/distribuzioni le quali finora, tranne che in rare eccezioni, continuano a fare finta di niente, preferendo andare a colpo sicuro riproponendo un cinema di fiction senza capacità di analisi sociale né problematicità, che ormai da anni vomita perbenismo, mediocre gusto televisivo, totale scollamento dalla realtà, provincialismo.
Una visione inconsueta e inaspettata, questa del Passaggio della linea, un piccolo “poema notturno e un film di montaggio” come lo definisce il regista, frutto di un anno intero di lavoro di ripresa a bordo di tutti i convogli che circolano sulla rete ferroviaria italiana. Un viaggio immaginario, fisico e mentale attraverso l’Italia a bordo dei treni di serie B, quegli espressi notturni a lunga percorrenza dai nomi altisonanti – Freccia del sud, Treno del Sole, Freccia della laguna – ma abbandonati ormai a un destino di inesorabile degrado da un’azienda sempre più attenta alle quotazioni di borsa che a garantire un servizio dignitoso ai viaggiatori. Tanto più che su quei vagoni fatiscenti incontriamo un assaggio della schiera dei dimenticati della ristrutturazione liberista. Mentre fuori dai finestrini polverosi scorre un paese dai segni contrastanti, dove lo squallore urbano e suburbano del paesaggio si accende in improvvise, poetiche suggestioni, sul treno si ritrova un’umanità ai margini. Passeggeri solitari che fumano in corridoio, gruppi di meridionali e stranieri immigrati che discutono animatamente o che giocano a carte, prostitute africane addormentate negli scompartimenti, lavoratori stagionali che si rollano una canna, pendolari stanchi che tornano alle loro famiglie. Il punto di vista rimane per tutto il viaggio a bordo treno, mai a terra, con la notte che fluisce malinconicamente dietro i vetri appannati, il bagliore delle stazioni di passaggio e delle luci stradali che illumina per un istante una sagoma, un volto assorto nella penombra, come immagini rubate di spettri. I suoni dall’esterno arrivano ovattati e attutiti, mentre negli scompartimenti i diversi accenti dialettali si mescolano e si sovrappongono, per poi lasciare spazio alla quiete delle poche preziose ore di sonno.
Il lirismo puramente astratto, ritmico-musicale, dell’operazione è interrotto solo da sporadici interventi di alcuni passeggeri: un vecchio che ha eletto i treni a sua dimora per non finire i suoi giorni in un ricovero “Sul treno la casa è assicurata, vado e vengo e nessuno mi dà noia”; un ragazzo pugliese che ha vissuto in mezza Europa e che racconta il coraggio della scelta di migrare; un altro, dall’atteggiamento più fatalista, non ne può più di essere trattato come un pregiudicato per il solo fatto di abitare a Napoli – Scampia. I passeggeri sembrano galleggiare isolati in una dimensione atemporale, in perenne sospesione tra un punto di partenza e un punto di arrivo, in un vuoto di presente che è anche un perdersi e un ritrovarsi interiori. Sugli stessi binari dei convogli ad alta velocità e dei pendolini per businessman, questi viaggiatori della notte vanno incontro ai loro destini tra fiducia e ripensamenti, e ci raccontano finalmente un'Italia reale.