THE DEVIL’S BATH di VERONIKA FRANZ e SEVERIN FIALA
di Maria Giovanna Vagenas
Des Teufel’s bad, terza pellicola comune per il tandem composto dai due registi e sceneggiatori austriaci Veronika Franz e Severin Fiala, e stata mostrata nel concorso internazionale della Berlinale ottenendo l’Orso d’argento per la migliore prestazione tecnico-artistica per la sua fotografia curata da Martin Gschlacht.
Veronika Franz e Severin Fiala, che si sono fatti un nome con le loro due prime pellicole, Goodnight Mommy (2014) e The lodge (2019), eccellendo nel film di genere, cambiano quasi completamente registro in questo nuovo progetto per dedicarsi ad un soggetto storico.
The devil’s bath ci propone la descrizione di una vicenda assai cupa e funesta, che ci lascia profondamente turbati, basandosi sulla documentazione storica degli atti del processo di una giovane donna nel 18 secolo in una zona rurale dell’Austria. Centro di questa vicenda è Agnes una ragazza di estrazione contadina, il cui nome reale viene citato alla fine del film.
Agnes vive con la madre ed il fratello in una piccola casa in mezzo ai boschi della Carinzia in seno ad una famiglia unita ed affettuosa. Il film inizia nel momento in cui Agnes prende commiato dalla casa in cui era cresciuta per recarsi, accompagnata dai suoi che trasportano la dote su un carretto in un altro villaggio dove deve sposarsi con il contadino Wolf. L’atmosfera è ancora gaia, la ragazza è sinceramente felice e fiduciosa nel futuro, danza e si diverte ma già verso la fine della festa il nuovo marito preferisce ubriacarsi con i suoi compari piuttosto che occuparsi di lei e dello loro prima notte di matrimonio, che la ragazza attende con trepidazione, infilando perfino un talismano sotto il letto per restare incinta al più presto. La notta nuziale finisce per lei nella disillusione assoluta e cosi succederà, via di seguito, per tutte le notti a venire. Pur essendo affettuoso e premuroso l’uomo sembra disinteressarsi completamente ad ogni relazione carnale con la giovane donna.
Se questo è l’inizio della storia di Agnes non è l’incipit del film, dominato da una tonalità grigio-bluastra e da una perenne assenza di sole nel fosco ambiente silvestre in cui si svolge. The devil’s bath si apre seguendo i passi furtivi di una donna con un neonato in braccio che correndo attraverso un bosco in pendenza arriva ad una cascata dove getta il neonato nel vuoto e lo uccide. Subito dopo si reca di sua spontanea volontà in un convento dove dichiara la sua colpa, assumendosene la completa responsabilità e in seguito si confessa chiedendo ed ottenendo il perdono ecclesiastico per venire in seguito torturata ed uccisa in modo esemplare davanti a tutto il paese. Le sue dita e la sua testa tagliata, verranno esposte sull’alto di una rupe alla vista di tutti, il corpo giusto accanto, seduto come un manichino su una sedia.
The devil’s bath è la versione romanzata di un evento storico, il grande affresco di un’epoca e di un’ambiente ben preciso, quello delle zone rurali agli inizi dell’ottocento in Austria in cui la vita è particolarmente rude, le condizioni di lavoro sono durissime, la vita quotidiana è fatta di freddo, di fatica, di molte pene e poche soddisfazioni. Pur essendo sostanzialmente un film d’epoca in alcune scene, come in quella iniziale della donna torturata e giustiziata, e quella finale ed in alcuni dettagli come per esempio l’inquadratura delle teste dei pesci appesi e disseccati, o il crudele esorcismo al quale Agnes sottopone se stessa tagliandosi ed infettandosi di proposito il dorso per liberarsi dal demonio, si sente la maestria dei due registi nel trattare degli aspetti di horror e di body horror con assoluta maestria.
Il senso o piuttosto il terrificante, lugubre non-senso di questa complessa vicenda può essere riassunto – come viene fatto nella parte finale della pellicola tramite una didascalia- in questi termini: in un mondo in cui la religione cattolica, il potere della chiesa ed i suoi precetti, vengono applicati con un’ottusa intransigenza ed con una violenza efferata, in modo disumano, il suicidio è una pena capitale e chi lo commette non solo muore nel peccato ma gli viene anche negata la sepoltura e il suo corpo viene buttato via e lasciato marcire a cielo aperto. In quest’ordine d’idee, perversamente, chi vuole suicidarsi senza morire nel peccato ricorre allo ‘stratagemma’ di uccidere qualcun’altro – di preferenza un bimbo o un fanciullo, esseri ancora puri- andando poi immediatamente a confessarsi per ottenere il perdono ecclesiastico. Chi ricorre a questa pratica riesce a realizzare il proprio fine ultimo cioè quello di morire senza essere scomunicato e ripudiato dalla chiesa dato che, ovviamente, viene subito condannato a morte. Tale prassi viene descritta come “suicidio per procura”.
Questo è il canovaccio sul quale si costruisce la vicenda del film ma ridurlo solo a questo aspetto sarebbe limitativo perché la sua forza sta proprio nella descrizione del tragitto interiore della sua protagonista che passa dall’essere una ragazza piena di gioia e di sogni, alla disperazione assoluta e alla depressione. Confrontata con un matrimonio infelice, una suocera dura ed intransigente, la solitudine totale e l’impossibilita di avere dei figli, isolata in un ambiente ostile, rinchiusa in una nuova casa che lungi dall’essere un focolare domestico sembra una vera prigione, Agnes scivola piano piano, ogni giorno di più in uno stato che oggi descriveremmo come depressione ma che in quell’epoca veniva descritto come il bagno del diavolo, una sorta di possessione. L’infelice era considerato come un indemoniato e veniva trattato con rituali atroci per scacciare il male dalla sua anima.
Interpretato con dedizione assoluta dalla carismatica Anja Plaschg che ha anche scritto la musica della pellicola, The devil’s bath è, innanzitutto, il ritratto sconvolgente di una donna che cade in una depressione profonda. L’attrice sa vibrare di tutto il suo corpo, trasmettendoci con una sensibilità a fior di pelle e con il fervore del suo sguardo lo stato d’animo dell’eroina in ogni istante, dando vita così ad un personaggio unico nel suo genere.
Veronika Franz e Severin Fiala hanno saputo creare un’opera intensa e rigorosa in cui ogni singolo tassello, s’integra perfettamente nella visione di un mondo abbandonato alla crudeltà dei pregiudizi religiosi: i boschi bui e lussurianti, la casa-prigione di Agnes in fondo ad una valle, i costumi d’epoca, il suono minaccioso e la fotografia di Martin Gschlacht che sa sondare con cupa precisione l’oscurità della luce anche in pieno giorno, tutti questi elementi compongono una sinfonia sul dolore umano che ci trafigge il cuore.
Martin Gschlacht è stato giustamente ricompensato con l’Orso d’Argento per un contributo artistico eccezionale.