Premio Fipresci per la sezione Encounters, 2024

Conversazione con la regista

di Maria Giovanna Vagenas

Potresti parlarmi del processo di realizzazione del film, che pare sia stato alquanto complesso?

Il punto di partenza, l’idea di questo film, o meglio la necessità di fare questo film, è nata quando è ho terminato il mio film precedente: The Future Perfect (2016). All’epoca vivevo ancora a Buenos Aires e in quel momento, dopo circa dieci anni, ho iniziato a sentire che stavo perdendo il mio legame con la Germania, il Paese da cui provengo. Ma allo stesso tempo, questo periodo passato in Argentina è stato abbastanza lunghi da farmi capire che sarei sempre stata considerata una straniera, che non mai potuta diventare un elemento invisibile, naturale, tra virgolette, in questa nuova società. L’attrice di The Future Perfect, Xiaobin Zhang, mi ha detto che qualcosa di molto simile è successo anche a lei come migrante cinese a Buenos Aires. Dopo il film che abbiamo girato insieme, ci siamo ritrovate entrambe in una situazione simile e questo mi ha dato la voglia di fare un nuovo film che captasse questa sensazione di perdita di “appartenenza”. Volevo parlare di quelle persone che si trovano da qualche parte nel mondo, che potrebbero tranquillamente andare anche da qualche altra parte, ma che in realtà non appartengono a nessun posto.

Nel tuo film è particolarmente importante l’idea del passaggio. Le persone attraversano i luoghi, ci vivono per un po’ e poi si spostano di nuovo, senza soluzione di continuità

Forse sarebbe eccessivo dire che questo è un film sulla perdita ma ci sono dei momenti di smarrimento e ci sono anche momenti in cui si creano delle connessioni in quest’esistenza fugace e le persone entrano in contatto tra di loro, si vedono e si ritrovano e poi si separano di nuovo. Per me, i momenti essenziali sono quelli in cui le persone riescono a stabile un qualche tipo di connessione che non corrisponde per forza agli schemi classici di una famiglia- padre, madre, figlio- o di un legame amoroso con un uomo o una donna ma è una relazione interpersonale.

Anche l’aspetto della lingua è molto importante. Quasi tutti parlano una lingua diversa, ma in qualche modo ci si capisce…

Questo film, come il precedente, è nato perché mi sono trovata a lavorare come regista in un Paese da cui non provengo e di cui non parlo la lingua come chi vi è nato, e mi sono resa conto che quello che posso fare è realizzare dei film dalla prospettiva di uno straniero, perché è questo il contributo che posso dare al cinema di questa comunità di cui sono entrata a fare parte quando mi sono trasferita a Buenos Aires.  Questo è un problema cruciale, basti pensare che molti registi argentini dicono di non poter o di non volere più girare un film in castigliano ma solo nello spagnolo specifico della regione da cui provengono e così via, e questo è esattamente l’opposto di quello che faccio io. Ciò ha molto a che fare con la mia rinuncia ad un controllo totale e con la fiducia in un processo collettivo in cui le mie attrici e i miei attori – molte dei quali si trovano davanti alla macchina da presa per la prima volta – decidono da soli quali cambi debbano venire effettuati nel loro testo o quale sia la migliore espressione da utilizzare, ovviamente – non conoscendo la loro lingua- io non posso assolutamente controllarlo, ma posso fidarmi di questo gruppo e delle discussioni che hanno tra loro. È stato tanto bello quanto impegnativo farlo. Nel mio film precedente, The Future Perfect, si parla in modo molto esplicito del linguaggio per tutto il tempo, anche ad un livello meta-filmico. Avendo già lavorato in questo tipo di contesto, mi sono detta che avrei potuto fare un ulteriore passo avanti e dire che avrei semplicemente potuto girare un film in una o più lingue che non sono mie e che non riesco nemmeno a capire, come il mandarino appunto. Non ho nemmeno cercato di impararlo perché ho pensato che, ovviamente, avrei potuto studiare il mandarino per otto anni o più, ma non sarei mai arrivata al livello sufficiente di comprensione. Non ci sono riuscita nemmeno in spagnolo, anche se lo parlo molto bene, a raggiungere un livello tale da cogliere tutte le sottili sfumature del linguaggio. Se partiamo dal presupposto che in ogni modo non ci capiamo mai completamente – e credo che questo abbia molto a che fare con la condizione umana in sé- cosa possiamo fare gli uni con gli altri?

Il film ha una struttura temporale molto interessante; c’è un affascinante avanti e indietro e un intreccio di passato e forse anche di futuro. Come hai costruito questa temporalità fluida, così particolare?

Per me questo aspetto è strettamente legato a quello della struttura narrativa ed è connesso al mio film precedente, in cui avevo già lavorato con delle attrici cinesi non professioniste. Abbiamo fatto le riprese solo nel fine settimana perché durante la settimana tutti lavoravano in supermercati o nei negozi d’ importazione cinesi. Avevo un feeling con le persone con cui lavoravo e sapevo che si divertivano e amavano farlo. Tuttavia, il sabato dopo mancava sempre qualcuno all’appello. Chiedevo agli altri: “Sapete dov’è Wang oggi? O dov’è l’uno o l’atro?”. Le risposte che ricevevo erano del tipo: “No, lui si è trasferito in Cile ora, o lei vive a Cordoba ora, o è tornata in Cina”. Questo è stato un problema enorme, ovviamente. Lo sapevo. Quindi ho capito fin dall’inizio che se avessi voluto girare con delle persone di questa comunità che lavorano in queste aree e le cui ragioni di immigrazione sono economiche, non avrei potuto aspettarmi che rimanessero sempre nello stesso posto a causa del film. Ho pensato che se è un problema così lampante, allora devo affrontarlo e devo incorporarlo direttamente nel film. Ovviamente, come regista mi sarei augurata esattamente il contrario, perché mi oriento naturalmente verso un tipo di drammaturgia classica. Nella tragedia classica, per esempio, c’è un eroe – di solito un è eroe uomo, non un’eroina – che parte, viaggia, vive delle avventure, cresce, cambia e torna a casa maturo e pieno di saggezza. L’arco narrativo si chiude in questo modo. Purtroppo questo tipo di narrazione non corrisponde affatto alla vita delle persone con cui volevo lavorare in questo film. Non bisogna prendere in considerazione solo quello che si racconta, ma anche il tipo di contenitore che s’inventa per queste storie, in altre parole, il tipo di struttura che dovrà accoglierle. La struttura specifica di questo film è stata creata per dire: ci sono diversi protagonisti e ciò che li unisce è che sono tutti in giro per il mondo, che hanno perso il loro senso di appartenenza in questo momento. Questa perdita può anche essere solo uno stato temporaneo che non ha nulla a che fare con la migrazione. Può anche avere a che fare, come nel caso di Kay, la turista, con una separazione amorosa. Per questo ho voluto che si incontrassero o corressero in parallelo persone diverse ma accomunate da questo sentimento e che trovassero nei loro incontri fugaci qualcosa come una via d’uscita.

Possiamo immaginare una sceneggiatura ben strutturata o più una forma aperta?

Nella sceneggiatura direi che ho lasciato dello spazio aperto nei dettagli per potervi inserire tutto quello che poteva accadere e le varie persone che si sarebbero eventualmente presentate strada facendo. Ma è la sceneggiatura stata scritta in modo classico. Ho iniziato con il mio co-sceneggiatore e con Pio Longo e poi mi sono resa conto, che questa pellicola era troppo personale per continuare a scriverla con lui che è un argentino di Buenos Aires, per questo, da un certo punto in poi, ho deciso di continuare a scriverla da sola. Quindi abbiamo scritto insieme la struttura film d base del film, il resto l’ho finito di scrivere io

Come hai scelto i tuoi attori che, salvo poche eccezioni, sono dei non professionisti?

È stato un processo di casting estremamente estenuante. Ho fatto due viaggi di ricerca a Recife con l’attrice del mio film precedente. Abbiamo camminato nel centro storico e nei negozi cinesi e abbiamo iniziato ad intervistare gli immigrati cinesi a Recife sulla loro vita quotidiana, sul loro lavoro, sul loro stato d’animo, sui loro sentimenti riguardo alla questione dell’appartenenza, sui loro problemi e su ciò che li tiene svegli la notte impedendo loro di dormire serenamente. Poi ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, basandomi sulle loro storie, e naturalmente ho sempre pensato a certe persone, quelle che mi interessavano di più e che pensavo di contattare per prime quando sarebbe arrivato il momento delle riprese. Poi è arrivato Bolsonaro e ha messo in pausa il progetto, come tutti gli altri film in Brasile in quel momento. Quando si è insediato ha immediatamente congelato tutti i finanziamenti. Quindi c’è stata una pausa lunghissima e poi è arrivata la pandemia. Così tutto è stato rimandato di nuovo. Poi io sono tornata in Germania eXiaobin, è tornata in Cina. Quando i produttori hanno detto: ok, ora si fa sul serio, sono tornata di nuovo in Sud America e ho iniziato a cercare queste persone. A Recife mi sono resa conto che le persone che speravo di rivedere erano tornate in Cina. Per il casting ho lavorato in seguito con Karina Nobres, che lavora molto nel cinema documentario e fa ricerca e co-regia, e insieme a lei ho cercato i miei attori non professionisti sia a Recife, he a San Paolo.

La citta di Recife e il suo spazio abitativo, giocano un ruolo cruciale nel film. Cosa ti ha spinto a scegliere questa citta in particolare?

Molto tempo fa, ho incontrato alla Viennale il regista Kleber Mendoça Filho  – uno dei produttori del film-   che mi ha raccontato questa leggenda metropolitana sulle torri gemelle di Recife, che erano state costruite come dei complessi di appartamenti di lusso per l’élite di Recife o di Pernambuco in cui vivevano anche dei gruppi di emigranti cinesi e dove, in seguito a varie incomprensioni, sono scoppiati dei conflitti e ci sono state delle gravi tensioni, che ovviamente avevano connotazioni razziste. Solo per averne sentito parlare, ho pensato che sarebbe stato interessante cercare di includerle nel film che avevo in mente. La situazione abitativa in queste torri è stata il punto di partenza di questo progetto, perché stavo cercando un luogo in cui svilupparlo. Ho pensato che questi grattacieli sono un tipo di architettura che ignora completamente il contesto locale, in altre parole un tipo di architettura che potrebbe essere in una qualsiasi parte del mondo e che non aiuta a capire dove ci si trova e come ci si potrebbe integrare in questa città.

Ho avuto l’impressione che i protagonisti si trovino sempre come presi in degli spazi che sono come delle piccole scatole; delle stanze esigui, in un minuscolo giardino, o accanto ad una piscina, che sembra anch’essa angusta…

Sì, è tipico di questa architettura “di massima sicurezza” brasiliana per le classi agiate. Si vive in una torre residenziale recintata e si esce dal parcheggio sotterraneo per entrare in un’altra torre o in un centro commerciale. Sono tutti ritagli e scatole private ed è quello che mi hanno detto gli immigrati, che vivono allo stesso modo. In altre parole, si arriva agli antipodi, dall’altra parte del mondo, dalla Cina al Brasile, e ci si muove solo in piccolo settore ristretto. Ma è quello che, volenti o nolenti, finiamo per fare noi tutti!

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