KYUKA: BEFORE SUMMER ENDS di KOSTIS CHARAMOUNTANIS

Conversazione con il regista

di Maria Giovanna Vagenas

Kyuka primo lungometraggio del regista greco Kostis Charamountanis, selezionato quest’anno all’ACID di Cannes ci ha colpito e sorpreso per la straordinaria grazia e la grande inventività formale di cui fa prova. Il regista riesce a cogliere in pieno l’essenza dell’estate mostrandoci la fragilità dei rapporti umani in seno ad una famiglia diversa dalle altre, sotto il sole battente, con un tocco lieve e pieno d’humor. Babis, un padre che alleva da solo un figlio ed una figlia ormai sulla soglia dell’età adulta, pena a trovare un equilibrio non solo sulla barca che li porta in vacanza ma anche nella propria vita. Sul filo di una serie d’incontri e di scontri inattesi il regista c’imbarca in un’avventura fresca e commovente dove la musica, la luce del sole ed i riflessi brillanti del mare si fondono con i tormenti, i desideri e le speranze dei personaggi per culminare in una nuova presa di coscienza che, prima della fine dell’estate, cambierà le carte in tavola per tutti. Kyuka ha avuto la sua prima in Grecia al festival di Salonicco dove ha vinto due premi; il premio del pubblico del concorso Film Forward, e il premio Finos Film.

Il tuo film mi ha toccato fin dalle sue prime parole, quanto scrivi sull’inizio e la fine dell’estate mi ha riportato alla mia infanzia. Vorrei chiederti come è nato il progetto di questo film?

Stavo girando il mio secondo cortometraggio – all’epoca avevo come obiettivo di girare un film all’anno, solo per imparare, perché non ho mai frequentato una scuola di cinema. Pensavo: “Farò un film all’anno, così potrò imparare questo mestiere lavorando”. Così, mentre scrivevo il mio terzo cortometraggio, ho scoperto che non andava bene come corto perché mi stavano venendo in mente un sacco di cose, troppe per una forma breve. Così, gradualmente, ho iniziato a scrivere un lungometraggio. Ma siccome sapevo che ci sarebbe voluto molto tempo per realizzarlo e volevo rimanere attivo, nel 2018 ho realizzato una versione più breve in cui ho immaginato una sorta di prequel di questa storia prima dell’arrivo dell’estate e che ho intitolato Kiokou. In pratica ho preso gli stessi personaggi, questi ragazzi, questi due fratelli, e li ho immaginati durante l’inverno mentre stanno aspettando l’arrivo dell’estate. Abbiamo girato tutto con una vecchia cinepresa, una Hi 8, ed è stato soprattutto un esperimento perché all’epoca volevo girare il mio lungometraggio, quello che hai visto, con una Hi8. Kiokou, come dicevo,è stato fondamentalmente un esperimento con i personaggi, con la fotografia, con la sceneggiatura…

Cosa significa la parola Kiokou?

È una parola giapponese che significa ricordi, mentre Kyuka significa vacanza. In realtà volevo fare una trilogia: Ikioukou, Kyuka e Ikierou che significa: il processo di scomparsa. In realtà il cortometraggio è stato dettato anche dal bisogno di continuare a lavorare, perché sapevo che il lungometraggio mi avrebbe preso molto tempo. E in effetti mi ci sono voluti be sette anni per fare questo film.

Al di là di questi aspetti più pratici dello sviluppo di una sceneggiatura, qual’è stata l’origine di questo progetto?

Direi che sono partito dall’osservazione, dalle mie esperienze personali e dalla volontà di sperimentare. Sono molti elementi diversi e in qualche modo, tutti insieme, si sono uniti e col tempo, lavorando, hanno iniziato a prendere forma. Direi che la mia ispirazione proviene dal mio vissuto ma anche dall’osservazione di cose che succedono ad altri e che assimilo trasformandole in un qualcosa di personale. Il passare del tempo è cruciale in questo senso; col tempo, lentamente, si forma qualcosa, è un processo.

Ci sono dei registi che ammiri in modo particolare e che hanno influenzato il tuo modo di fare cinema?  La tua fonte d’ispirazione è piuttosto l’arte, la musica o la letteratura?

Mi piace leggere. Mi piace ascoltare la musica classica. Non ho visto molti film, ma ho studiato molto i registi che mi piacciono. Mi piace Werner Herzog, per esempio. Ha fatto 70 film e li ho visti quasi tutti. Ho letto tutti i suoi libri. Mi piace Agnes Varda, mi piace Peter Tscherkassky perché ha un qualcosa di molto tangibile e concreto nel suo modo di fare film sperimentali. Non l’ho mai copiato, ovviamente, ma mi ha certamente ispirato. Ammiro molto i registi che non hanno frequentato delle scuole di cinema – Varda e Herzog mi risulta che non abbiano studiato cinema. All’inizio mi sentivo alquanto insicuro ma il fatto che dei registi leggendari, come quelli che ho citato prima, non avessero mai studiato cinema e che avessero imparato a fare cinema lavorando, mi dava molte speranze. È così che ho deciso di lavorare da autodidatta, abbandonando per sempre l’idea di frequentare una scuola di cinema. Nel mio bagaglio di filmmaker ho la musica, i film che ho visto, le mie esperienze personali, le storie degli altri e tutte ciò che attrae la mia attenzione. Per esempio, qualche anno fa, un amico, Theodosis, che aveva un cagnolino, mi ha raccontato che partecipava a dei concorsi canini, ho pensato che fosse qualcosa d’interessante e mi sono detto: “Potrei farci su un film!”. E l’ho fatto. Ovviamente, questo è un lavoro molto solitario. Ci ho messo sette anni per realizzare questo lungometraggio. Quattro anni fa ho smesso di fare cortometraggi perché non ce la facevo più; la preparazione del lungo occupava tutto il mio tempo e i miei pensieri. Adesso sono esausto e mi sento vuoto senza stimoli e senza energia. Devo fermarmi, fare una pausa e cercare di riprendermi pere potere affrontare il prossimo lavoro

Kiouka è un film molto luminoso, in cui il mare e il sole estivo giocano un ruolo importante. Anche i colori che usi sono molto vivaci. Come ha lavorato alla fotografia con Konstantinos Koukoulios?

Volevo che i colori fossero molto intensi. Volevo che la pellicola fosse luminosa ma non volevo dei contrasti forti. Come ti dicevo prima, mi sarebbe piaciuto girarla con una Hi8, ma avevo dei dubbi sul suo in termini di qualità dell’immagine. Konstantinos Koukoulios che ha curato la fotografia, ha fatto in questi termini un ottimo lavoro. Girare in barca non è stato facile, perché lo spazio era molto limitato, girare con una macchina da presa normale ci creava costantemente dei problemi di messa a fuoco. Bisognava aspettare ed aspettare per cambiare ogni volta le lenti dell’obiettivo e questo finiva per uccidere l’energia creativa. Avevamo bisogno di una soluzione tecnica che ci permettesse di essere agili. Kostantinos ha avuto un’idea grandiosa: ha utilizzato una cinepresa moderna, una Lexa Mini, sulla quale ha poi montato gli obiettivi di una 16 mm, che erano datati e meno nitidi, conferendo così al film una consistenza più pastosa. Il resto del lavoro lo abbiamo fatto con la color correction, smorzando ancora un po’ i colori che erano troppo brillanti e accentuando il grano dell’immagine.

Sia i colori che la musica di Kyuka rimandano, a mio avviso, al cinema popolare greco degli anni ’60/’70. Penso, per esempio, ad un cineasta come il grande Giannis Dalianidis che usava dei colori sgargianti per le sue famose commedie musicali…

No, non ti sbagli; il cinema popolare greco degli anni ’60/’70.  è stato una delle mie influenze maggiori anche in fase di scrittura. Ho ascoltato molte canzoni di quel periodo mentre scrivevo  Volevo fare un film pieno di luce, con una colonna sonora gioiosa, intensa e vivida in contrasto con la sua trama drammatica.

Eppure in Kyuka c’è anche un requiem, ma c’è anche il valzer, naturalmente.

Nel film ci sono due estati: un’estate molto luminosa, gioiosa, vivace e spigliata, e un’estate molto monotona, triste, ma più reale. La musica riflette questi due aspetti. Kyuka è anche una coming of age story quindi anche la musica deve stare al passo con la trama ed illustrare lo sviluppo e il cambiamento dei personaggi nel corso della vicenda. La musica è uno strumento e un soggetto narrativo come lo è anche la barca.

La scena culminante del film in cui, tutti i segreti nascosti da anni vengono a galla, è montata magistralmente, con una serie di tagli particolarmente incisivi.

Volevo che questa scena fosse montata in modo sincopato fin dall’inizio. Il montaggio riflette pienamente gli aspetti più sperimentali di questo progetto. Volevo che il climax del film avesse un tono molto specifico: doveva essere caotico, ci dovevano essere delle cicale e doveva essere un incubo. Attraverso molte prove siamo arrivati a questo risultato in sede di montaggio, anche se, come dicevo prima, la scena era stata scritta in questo modo fin dall’inizio. Per me era anche molto importante far emergere l’humor, non doveva essere una scena drammatica, doveva essere leggera come della spuma, pur rispecchiando la forza delle emozioni, doveva poter fare ridere anche in mezzo all’assurdità della situazione. L’ho scritta ripensando alle estati in cui andavo in vacanza in barca a Poros con i miei. Quelle vacanze erano così: assurde, ma anche piene di humor e di amore. Eravamo sempre nello stesso posto con la barca, in uno spazio ristretto, in quattro. Dopo un po’ ci si sentivamo tutti male, era una cosa pazzesca. Pescavamo, mangiavamo, c’erano anche dei momenti sereni. Volevo cogliere quel ricordo nel film, ma allo stesso tempo volevo anche trasformarlo, facendone un’opera di finzione interessante e con una trama, una drammaturgia tutta sua.

Potresti parlarmi dei personaggi di questa famiglia così particolare e degli attori che hai scelto per interpretarli?

Konstantinos Georgopoulos, che interpreta Konstantinos, e Elsa Lekkou, che interpreta Elsa, ci li consco da oltre 10 anni. Eravamo compagni di corso al Conservatorio di Atene quando studiavamo recitazione. Elsa mi piaceva molto per il suo modo di recitare. Mentre Konstantinos ed io abbiamo collaborato in alcuni film che abbiamo fatto insieme e abbiamo un rapporto molto bello. Ho scritto la sceneggiatura pensando a loro e al loro rapporto. Volevo che Konstantinos fosse il più timido dei due ma anche il più coraggioso, e allo stesso tempo doveva sentirsi come superfluo in famiglia, mentre Elsa doveva avere paura di tutto ed essere molto attaccata a suo padre. Volevo che il rapporto fra fratello e sorella avesse delle caratteristiche molto specifiche. In una famiglia frammentata, loro due dovevano formare una specie di squadra, una squadra molto forte, che alla fine si decompone generando così una svolta narrativa.

Anche la performance di Simeon Tsakiris, che interpreta Babis, il padre, è davvero notevole.

Simeon è arrivato due mesi prima delle riprese, ci è stato presentato da Dionysia Dimitrakelou, la nostra production manager. Quando ho visto le sue foto non assomigliava affatto al personaggio del padre come me lo ero immaginato, era troppo giovane e troppo in forma, ho pensato che, per gentilezza, gli avrei parlato della sceneggiatura e gli avrei letto una sinossi, ma probabilmente non l’avrei preso. Mi ha subito chiamato il giorno dopo. Si era innamorato della sceneggiatura, non era riuscito a chiudere occhio tutta la notte. Ci siamo incontrati e ha iniziato a parlarmi del film e di tutte quelle cose che sentiva riflesse nella sua propria vita; era un canottiere, era molto legato al mare, alla pesca. Aveva già imparato i dialoghi a memoria con un enorme entusiasmo. Mi sono fidato di lui. Era il suo primo lungometraggio, lui ha sempre lavorato in teatro.  Per somigliare al padre si è fatto crescere i capelli e la barba, ha smesso di andare in palestra, è ingrassato e si è abbronzato. Ha cambiato il suo aspetto e la sua routine quotidiana con una dedizione straordinaria per potere indossare i panni di Babis. Insieme abbiamo parlato molto del suo personaggio di come doveva essere, di come doveva muoversi, di cosa doveva nascondere. Alla fine del film avresti voluto abbracciare il personaggio di Babis, nonostante tutti i suoi sbagli e la sua stupidaggine, perché attraverso l’interpretazione di Simeon Tsakiris, si capiva che quest’uomo cosi duro e strano in apparenza, celava una grande dolcezza nell’anima.

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