CONVERSAZIONE CON LA REGISTA

di Maria Giovanna Vagenas

In Dahomey lei documenta un momento storico creando una memoria collettiva, non solo per il popolo del Benin, ma per l’intero continente africano, che condivide una storia simile. Quando ha saputo della restituzione dei ventisei oggetti alla Repubblica del Benin e quanto è stato facile o difficile ottenere il permesso di filmare l’intero processo?

La questione della restituzione è sempre stata, credo, al centro del mio approccio come regista. Ho scelto di impegnarmi in Senegal dieci anni fa. Ma la restituzione nel senso concreto, tangibile, materiale delle opere d’arte saccheggiate dall’ex potenza coloniale francese in Africa, credo mi abbia richiesto un tempo infinito per capire cosa significasse davvero e tutta la violenza che ciò implica. Diciamo che questo è proprio uno dei motivi per cui faccio film, per rendere il più possibile concreta, intelligibile e sensibile la questione del colonialismo, che non è necessariamente una realtà facile da cogliere perché l’obiettivo del progetto coloniale è proprio quello di cancellare la violenza che realmente esiste ed è sempre esistita, per cui è difficile prenderne coscienza. Credo che i film siano necessari per metterci in contatto con questa realtà, in modo profondo e concreto. Così, quando ho sentito la dichiarazione delle intenzioni di Emmanuel Macron di restituire il patrimonio saccheggiato in Africa, mi sono sentita come se fosse la prima volta che mi rendevo conto di quanto nulla ci fosse al suo posto.

C’è un momento del suo film, a cui lei dà molta importanza: la discussione tra i giovani sulla questione della restituzione dei beni culturali. Un aspetto che emerge molto spesso in questa discussione è l’acculturazione e il desiderio di recuperare e riconnettersi con la propria identità. I giovani che vediamo nel suo film sono degli studenti universitari, delle persone istruite con un certo background. Volevo sapere se questo sentimento è condiviso anche da altri giovani che non possono esprimersi a questo livello accademico.

In Africa in generale ma anche in Benin l’accesso a delle informazioni attendibili e corrette è un problema reale. I giovani che avete visto nel dibattito rappresentano la comunità del paese su questo soggetto. Per molti di loro, è stato grazie a questo dibattito o a questa iniziativa che hanno avuto accesso a queste informazioni. Fin dalle scuole elementari, sapevano che i beni culturali del paese erano stati portati all’estero, ma non sapevano esattamente di quali beni si trattasse. L’informazione non era accurata e l’insegnamento scolastico era impartito in modo tale che non sapessero esattamente di cosa si trattasse, così da potere dimenticare facilmente questo assunto, generando una sorta di amnesia collettiva. In questo modo l’intera faccenda è stata “dimenticata”. Questo film è stato per loro un punto di partenza per riconnettersi con la propria storia. Ha suscitato in loro una sorta di rivolta e un desiderio molto forte di recuperare queste conoscenze e di ricostituire l’intera storia.

A che punto le è venuta l’idea di includere il forum dei studenti beninesi nella sua pellicola?

La prima versione prevista per questo film era una fiction basata sull’annuncio piuttosto surreale della restituzione fatto da Emmanuel Macron nel 2017. Non potevo immaginare, ovviamente, che qualche oggetto sarebbe effettivamente tornato in Benin in un futuro prossimo; pensavo che sarebbe successo tra venti, trenta o più anni. Poiché non sapevo se ne sarei stato testimone nella mia vita, ho deciso di scrivere una versione romanzata; un’opera di finzione che iniziasse con il saccheggio di un’opera d’arte, una singola opera d’arte, in questo caso una maschera, e che seguisse l’intera avventura di quest’opera d’arte fino alla sua restituzione. Non potevo immaginare tutto questo nel futuro, perché la mia immaginazione non era stata condizionata a pensare, nemmeno a prevedere che la restituzione potesse essere possibile. Questo è ciò che ho cercato di dire all’inizio del mio intervento e che riecheggia il vago di cui parla Gildas a proposito del modo in cui la nostra storia è stata tramandata. Tutto è fatto per garantire che nulla cambi, e quindi bisogna davvero abbattere molte barriere interiori per osare sognare e osare chiedere ciò che è giusto e ciò che è legittimo. Per tornare alla sua domanda: credo che la forma della fiction non mi abbia mai abbandonato, quindi quando questi 26 tesori sono stati finalmente annunciati dalla stampa, ho voluto subito cogliere questo momento, che mi sembrava incredibilmente importante, anche se non ho capito subito che 26 opere erano così poche rispetto alle migliaia di opere che sono state saccheggiate e che dovrebbero essere restituite ai loro Paesi d’origine. Quando ci siamo imbarcati nella straordinaria avventura di rintracciare queste opere e di riportarle nei loro Paesi d’origine, in particolare con la direttrice della fotografia del film Joséphine Drouin Viallard, la parola d’ordine, se così si può dire, il principio formale, estetico e plastico, ma soprattutto etico, è stato quello di filmare questo ritorno dalla prospettiva delle opere, cioè dalla prospettiva africana, e di renderle soggetti, narratori della propria storia, della propria narrazione. Questo è il principio formale fondamentale di questo film. Inizialmente pensavo di seguire solo il viaggio di ritorno delle opere dal momento in cui hanno lasciato il Quai Branly fino al loro ritorno a Cotonou, ma poi, quando ho accettato l’idea di andare oltre il semplice viaggio, ho deciso che volevo fare un film più ampio, la questione della gioventù e del rapporto che i giovani hanno con queste opere che in qualche modo rappresentano il loro passato storico, i loro antenati, tutta questa straordinaria storia e questo potere che non è stato trasmesso loro come avrebbe dovuto, è diventata molto importante. Volevo che questo materiale rivelasse tutte le domande che questa restituzione solleva sul rapporto con il passato, con la colonizzazione, con le tracce della colonizzazione nel presente, e quindi la forma del film è questi due punti di vista, l’incontro tra il punto di vista di queste opere e quello dei giovani. Il film è un incontro tra queste due entità.

Una delle questioni sollevate nel suo film è se la restituzione di questi 26 oggetti sia stata un passo davvero importante o se sia stato un gesto di condiscendenza, come dice uno dei personaggi. Pensa che questa restituzione sia significativa o che 26 oggetti su 7.000 non siano sufficienti? Cosa possiamo sperare? Sta chiedendo al governo di agire più rapidamente e teme che il prossimo governo, dopo Macron, metta fine a questo tipo di movimento per la restituzione degli oggetti?

Anche se era importante prestare la massima cura ed attenzione a ciascuna delle opere che sono state restituite al Paese, mi sembra che fossero decisamente poche, troppo poche rispetto alle 7.000 opere che sono ancora prigioniere nei musei francesi, in questo caso al Quai Branly. È evidente che 26 opere – e questo è stato detto molto bene nel dibattito con i giovani – non sono sufficienti. Non solo lo capisco, ma penso che sia umiliante. Penso che dovremmo guardare oltre la messa in scena e tutto il lavoro di comunicazione che sono stati messo a punto dal governo intorno a questa ricostruzione. Sappiamo bene che si tratta di una questione che deve essere affrontata a diversi livelli, e che c’è l’agenda politica, ma c’è anche il modo in cui noi, come artisti, accademici, studenti e registi, scegliamo di affrontare questi temi. Non credo che si debba minimizzare il potere dello strumento cinematografico per mostrare l’importanza di restituire le opere ad un territorio che è stato sfruttato e dominato per secoli e continua ad essere sfruttato e dominato ancora oggi anche se in un modo diverso. Penso che una volta che abbiamo detto “Dobbiamo restituire”, una volta che ci siamo resi conto che solo 26 opere su 7.000 sono state restituite, non abbiamo detto molto, e che dobbiamo andare ben oltre questa questione e scegliere di parlare di restituzione come un pretesto, un prisma attraverso il quale mettere in discussione tutto ciò che crea dei problemi nell’equilibrio di potere tra gli ex-Paesi colonizzatori e noi.

L’obiettivo del film è quello di parlare di questa restituzione per mettere sul tavolo tutte le questioni che essa solleva – e sono molte-  e di farlo con la massima attenzione, con rigore e, in un certo senso, con la massima serietà possibile, perché è fin troppo facile per la Francia inviare 26 opere al Benin e, di fatto, nessuno si lascia ingannare da questo, né noi qui, né voi, né loro stessi. Quindi ognuno fa la sua parte, ognuno ha il suo copione. Quindi è ovvio che 26 non bastano, bisogna dirlo chiaramente, ed è proprio quello che abbiamo detto, attraverso tutti i giovani che mi sono presa la briga di incontrare e di riunire intorno a questo tavolo, per andare ben oltre questo soggetto specifico e di affrontarlo di petto.

Mi chiedo perché i giovani studenti che vediamo discutere all’università parlano tutti francese e non scelgono la loro lingua d’origine.

Gildas Adannou, che mi ha assistito nel film e che è anche un regista, sapeva che era molto importante per me riunire dei giovani intorno a questo dibattito, ma poi ho scoperto che all’interno di questi spazi come l’università o l’amministrazione la lingua parlata è quella degli antichi colonizzatori. Una donna dice nel film che la sua lingua non le è stata trasmessa per potersi esprimere come vorrebbe, per questo ho deciso che i tesori artistici del film parleranno in fon, una delle lingue native del Benin, questo è stato fondamentale per me.

Può parlarci della sua collaborazione con il grande musicista Wally Badarou, che ha composto la colonna sonora del film?

Un giornalista mi ha detto che la musica del film gli ha fatto pensare ad un compositore di colonne sonore di David Lynch, Angelo Badalamenti, e ne sono stato felice perché sono una grande fan di David Lynch e il suo lavoro ha avuto una grande influenza sul mio lavoro. Wally Badarou è in Africa il nostro Giorgio Moroder o il nostro Badalamenti africano, in qualche modo. Tutto questo per dire che, ancora una volta, mi sono nutrita principalmente di cinema europeo e americano, ma per me questo film è stato in fin dei conti un’opportunità e una necessità di vivere questo ritorno in Africa non solo attraverso queste opere, seguendo il loro viaggio verso loro terra d’origine, non solo incontrando i giovani del Benin, ma anche invitando davvero tutti coloro che potevano venire coinvolti per esprimere al meglio la potenza e la singolarità culturale della nostra storia. Per quanto riguarda Wally Badarou, la sua carriera e il suo straordinario talento sono note a tutti. Sono molto felice che la dimensione fantastica del film sia stata portata da un musicista africano che è la perfetta incarnazione di quell’ibridazione che è anche la mia. Mi sono davvero ispirata e nutrita dal lirismo e dalla straordinaria fusion della sua musica. Per me è meraviglioso poter esprimere tutta la ricchezza di questo melting pot, di questa Creolité, attraverso la musica e non solo e sempre attraverso le parole.  

È un soggetto incredibilmente ricco e sono felice che la dimensione fantastica sia stata apportata da un artista africano che non ha nulla da invidiare ai grandi maestri della musica occidentale. Credo che la questione dei riferimenti nel film sia importante. Didier, uno dei partecipanti al dibattito, ricorda che per venire preso sul serio all’università doveva citare Aristotele e Platone e che il fatto di riferirsi a degli studiosi africani era considerato d’importanza secondaria. Per me era fondamentale che voci come quelle di Dean Blunt, un’inglese di origine nigeriana, o di Wally Badarou, un francese di origine beninese -delle persone il cui background è molto simile al mio- accompagnassero, come in un coro, la restituzione di questi tesori che vanno ben oltre le parole che Makenzy Orcel ed io abbiamo concepito per la statua del re Ghezo, abbracciando tutto questo materiale storico tanto delicato e prezioso.

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