Non rimane che Marra. Il Vincenzo durissimo dei suoi due film. E meno male che il problema dell’opera seconda lui non ce l’ha. Speriamo non se lo faccia venire fuori tempo massimo. Se ci fermassimo qui, a Nessuna qualità agli eroi e a Il dolce e l’amaro, il bilancio del cinema italiano al sessantaquattresimo lido, non sarebbe per nulla incoraggiante. Nessun vero rinnovamento, nessuna preziosa indicazione, nessun film da brivido o da meraviglia. Due strade opposte, entrambe buie, speriamo non tragicamente senza uscita. Mentre gli altri fanno emozionare, indignare, scrocchiare mani e lucidare occhi (Le Graine et le mulet, probabile Leone d’oro, Redacted, In The Valley of Elah, per non parlare dell’enorme, fantascientifico, precoce, rivoluzionario, complesso I’m not There di un generosissimo, intimo e irriconoscibile Todd Haynes), dei nostri finora, a parte Zanasi che non punge, a parte Salvatore Maira (un docente di storia del cinema che si inventa un’ora e mezzo di piano sequenza in digitale), e il bello La ragazza sul lago dell’esordiente Molaioli, i film da concorso hanno deluso: l’uno, Paolo Franchi con Nessuna qualita’ agli eroi sperimenta a modo suo; l’altro, Porporati con Il dolce e l’amaro, se ne sta buono buono alle regole del mercato e della produzione. Ed è un peccato perché i mezzi ce li avrebbe, e lo dimostra anche in un filmetto placido da massa che fa spallucce.
Il fatto è che da Marra puoi aspettarti, bene che vada, un buon film alla Marra, e quindi duro – speriamo non troppo – serio, interessante, ma legato ad un’idea di cinema strutturata e che, seppur dignitosa, risulta troppo spremuta e riservata alla solita borghesia da cinema italiano che già conosce ed apprezza. Però magari Marra ti fa un film alla Loach, riconoscibile ma spesso di grande valore umano e cinematografico. Il fatto è che l’atteggiamento di Andrea Porporati di fronte all’opera seconda, col rischio sindrome a due passi, è stato opposto a quello del più ambizioso, eccessivo ma anche coraggioso Paolo Franchi. Con la conseguenza che Franchi ha urlato silenzi e inquadrature di cui non s’è capito nulla, e Porporati ha sussurrato ninne nanne per nonni e nipoti che tanto rilassano quanto nulla insegnano. Se il primo ha rischiato tutto e ha accelerato bruscamente in direzione autoriale, sbandando dolorosamente e con conseguenze pericolosissime anche per sé, il secondo si è nascosto, come un bambino intelligente, prudentissimo e timido, dietro gli argini noiosi, le gabbie dorate e i cattivi consigli del cinema italiano medio. Quello romanzato e cartolinesco, agrodolce coi conservanti, da riposo, facile e lineare. Apparentemente serio. E realizza il film che il pubblico italiano si merita, un pubblico che in fondo ama far finta di vedere un buon film e si accontenta di poche emozioni.
Se Franchi cade dal trapezio, dalle sue acrobazie di maniera, Porporati si concede una passeggiata nel parco. Di giorno, sia chiaro. Se il primo scivola sul silenzio della sala, e poi si sgretola e si inguaia in faccia alla stampa, il secondo porta a casa il breve applauso che cercava. Se di fronte al pericolo Franchi urla una reazione e fugge nel vicolo A, Porporati abbassa la testa e si allontana verso il palazzo più grande, B. Di sicuro meno furbo il primo del secondo. Meno calcolatore e più impaziente. Forse più egoista e testardo, presuntoso ed emotivo. Porporati, già autore del pregevole Il sole negli occhi, un esordio veramente incoraggiante, si gusta la giornata, prende il giornale e un buon caffè. Deve fare attenzione soltanto alle macchine che passano sul suo attraversamento pedonale e il coast to coast gli riesce bene. Perché il gioco è poco avventuroso e perché la sua scrittura possiede un solido mestiere. Il regista (e sceneggiatore) segue le tracce fresche e meno fresche di un cinema che piacque e le trasforma in un film che riesce a tenere in considerazione pure la “potenza” televisiva delle fiction che tanto piacciono e tanto fanno investire. Frulla titoli italiani recenti con dadini di grande cinema italo-americano cult e tiene a mente Angela e C’era una volta in America, Donnie Brasco e I cento passi, Quei bravi ragazzi e Romanzo criminale, Tarantino e La meglio gioventù. Comprese piovre e pizze connection, commissari montalbani e giudici semplificati in quattro pose. Racconta una tiepida storia d’amore e cosparge la favola di Sud Italia visivo e sonoro. Con pomodori di Tornatore e Masserie alla Giordana. Poi addolcisce il dramma con sortite nel grottesco e nella commedia. Gangster movie ed action movie. Con un paio di trovate da applauso e risata di cui rendergli atto. Ottima la traduzione del dialetto siciliano durante la rapina in banca, davvero pregevole. Che da una parte fa un gran piacere e dall’altra tanta rabbia. Perché si eclissa come un miraggio, come un pesce che salta dall’acqua e torna in mare. Porporati si affida a volti sicuri che lo ricambiano con interpretazioni di normale efficacia. Come Franchi aveva fatto con Todeschini, la straordinaria Irene Jacob e il troppo disponibile Elio Germano. Gifuni si appoggia a Borsellino e ne fa un’imitazione che vibra per un istante. Lo Cascio si redime dal fallimento di Mare Nero e nei panni del cattivo dimostra di poterci stare, seppure faticando. E forse per questo Porporati non gli strappa mai un momento di deamicisiana umanità. La Finocchiaro continua a essere leggermente imbalsamata e stavolta il personaggio non l’aiuta. Con Porporati siamo al secondo piccolo dispiacere per il cinema italiano in concorso a Venezia. Non riesce a scegliere un film personale e non segue con decisione neppure uno solo dei tanti solchi a disposizione.
Ora rimane Marra, che di sicuro non farà una commedia, ma non sappiamo con quale personalità e forza affronterà la sua terza prova nel lungo. La terza carta è ancora da calare ma il monito di Lizzani, provocato dall’articolo di Galli Della Loggia sul “Corriere della sera” (e seguito dagli interventi di Olmi, Bellocchio e Scalfari) sembra trovare mille ragioni di essere alla luce di quanto visto finora di italiano. Lizzani parla dell’incapacità di trovare un linguaggio nuovo che sia capace di comunicare col paese e della mancanza di un sentire comune che accompagni gli autori nel loro percorso.
Che dire, che fare? Non resta che godersi il piccolo buon film di Molaioli. Un giallo puro, tenuto su dalla scrittura e da una magnifica interpretazione di Toni Servillo. Nel timore che alla seconda opera, per montatura di testa o ansia da prestazione, Molaioli possa scegliere le strade perdute di Franchi o la pista ciclabile di Porporati.