Tra i funghi del terreno veneziano, tra la fauna colorata del bosco, si erge un albero antico, magro, lungo come un pioppo, ed elegante nella sua semplicità che sa d’un tempo andato e forse rimpianto. E’ Carlo Lizzani. Che della Mostra sa quanto sa di politica, di storia, di cinema, di letteratura: tantissimo. L’uomo si è raccontato da poco con un libro autobiografico: Il mio viaggio nel secolo breve. E Venezia, quasi per caso tra le star americane e i cineasti di mezzo mondo, gli dà un doppio momento di luce.
Una ragazza, la capace e tenace Francesca Del Sette, ha mostrato, in una sala Volpi affollatissima di vecchia guardia e qualche giovane, un documentario dedicato a questa costola “minore” della storia del cinema italiano. Il montato, supportato da una potente quantità di materiale e da un’intelligenza narrativa che aiuta a mantenere sempre viva l’attenzione, si intitola Viaggio in corso nel cinema di Carlo Lizzani. Ed è un film molto bello: un ritratto che racconta tanto del Novecento culturale e politico. Secolo breve sì, ma compresso, strafitto di roba e incroci. Tanti gli aggettivi preziosi e positivi per l’uomo Lizzani: coerente, lucido, magnanimo, colto, semplice, maturo, calmo, umano, veramente e sanamente comunista.
Il documentario è un viaggio parallelo al libro, quasi la trasposizione cinematografica di un romanzo. Lizzani è due volte protagonista: come oggetto narrato e come soggetto narrante. Sua è infatti la voce off che legge i passi del testo e sua la figura che si muove di tanto in tanto nei vicoli di piazza Navona. Carlo Lizzani è stato ed è, a più di ottant’anni, una figura da cui c’è molto da imparare. E non perché abbia mantenuto fede all’ideologia comunista, ma perché con essa ha sempre mantenuto un rapporto critico e dialettico. Perché ha messo il cinema al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio del cinema. Perchè del cinema, come della letteratura e della politica, ha fatto un tutt’uno nella speranza attiva di un mondo, secondo la sua onestà, migliore. Che poi piaccia la sua voce, la sua magrezza, la classe di una vecchia romanità colta, beh… anche l’estetica non guasta e il piacere aiuta l’intelletto e facilita la comprensione.
Il documentario, valido esercizio di critica cinematografica, di racconto e lezione di storia italiana, è stato a lungo applaudito e, sull’entusiasmo del momento, certa vecchia guardia ha chiesto con forza un ulteriore spazio di sala per questa fatica sorta dalla forte volontà dell’autrice e dei suoi collaboratori. La7, entrata in corsa nella produzione, ha trasmesso il lavoro il 2 settembre alle 13.55. Carlo Lizzani c’era, ha ascoltato una quantità enorme di complimenti a suo favore e non si è né commosso né stupito. Ma nemmeno, per carità, minimamente compiaciuto. Lui è un uomo che ha fatto tante cose nella vita: il critico, il comunista, il direttore della mostra del cinema di Venezia, il padre e il marito. E, soprattutto, il regista. Tra i più prolifici della storia del cinema e della televisione italiani. Un autore con la A maiuscola per cui l’eclettismo è sempre andato nella direzione dell’essere umano. Forse il cinema storico è quello che l’ha caratterizzato per la maggiore, ma anche l’horror e la commedia hanno toccato la sua carriera.
A documentario finito, a mani sclosciate e a cuori richiusi, la 64° veneziana ha poi proposto, Fuori concorso, l’ultimo, e sempre degno film del maestro romano: Hotel Meina. Film semplice e diretto di memoria e dolore. Un film sull’occupazione e la violenza nazista in Italia nei confronti del popolo ebraico. Un film che è lizzaniano in tutto e per tutto: dal tema, al minimalismo della regia. Un film come ce ne sono altri di quel genere. Non un capolavoro ma l’ennesima parola saggia di un intellettuale vivo, l’ennesimo, sempre necessario puntino su un indigeribile orrore storico. Nessuna sbavatura e nessun eccesso. Un lavoro da onesto maestro di vita.