In quel gorgo sentimentale ed eroico ognuno scopre i maestri che si merita o che almeno anela a meritarsi: quelli sicuri nel tracciare la via, definitivi nel tagliare il quadro, imperiosi nel far correre da sorgente a foce lo sguardo assetato. Quelli cui ripensare con gratitudine anche quando priorità e influenze saranno altre. Il mio maestro è stato Antonioni.
Kubrick fu (per molti) il guru adolescenziale da far fuori appena la sua mausolemaica spocchiosità fosse venuta a confliggere col calore vivificante dei flamboyant, fossero Ophüls, Truffaut o Woo. Herzog il compagno di strada di tante stagioni, il fratellone mistico e fumato con cui sballare con più stile. Powell la scoperta tardiva da coltivare con cure amorose.
Ma niente (forse solo il sommo Mizoguchi, un po’ più tardi) avrebbe avuto l’impatto devastante sulla crescita delle facoltà percettive dello studentello di cinema che fui, di quelle visioni sotterranee, in laboratorio. Sapienza, 1990, sotto Scienze Politiche. La pantera più che invisibile, come un Tourneur al quadrato. Il cinema in una crisi più che nera.
Ed ecco, bum, l’in vitro esplode, e dallo schermo pixellato da videoproiettore pre-digitale balzano fuori come fiamme di cristallo: pompe di benzina lungo il Po, verde londinese, deserti su deserti, e nebbie, che nebbie, lunghi addii, portaceneri, vetrate, scale, ciminiere, vuoto-pieno-vuoto, e quei capelli, quelle rocce, quegli atelier, quella potenza acuminata e fatale di presa sulle cose.
Erano anni in cui, da buoni giovanissimi turchi, si doveva prendere posizione. Dante-Petrarca, Bartali-Coppi, Antonioni-Fellini, no? E lì si era ferocemente antonioniani, si ergevano a vessillo le metafisiche astratte dell’uno contro le pagliaccerie umbilicali dell’altro; e si scopriva cosa piaceva davvero, oltre le ammirazioni obbligate e i nomi imprescindibili del canone.
Che poi in realtà di questa storia della borghesia, dell’uncommunicado, della civiltà in decadenza, me (ce) ne caleva fino a un certo punto. Come in Gadda: chi se ne frega dei supposti messaggi più o meno sociali. Tutto è nella forma, con tale panteistica completezza da bruciare ogni residuo ideologico/teorico. Anche i contenuti sistemati, tiè: che senso di onnipotenza.
Dopo, tante altre (troppe) immagini sarebbero passate sotto gli occhi, sempre meno vergini e puramente ricettivi, magari più abili e strutturati. Quei luoghi si sarebbero allontanati, abbandonando il centro della scena oculare, sostituiti da nuove scoperte, soprattutto orientali. Eppure rimanevano lì, in quella soffitta privilegiata, pronte a pretendere nuove attenzioni.
Mentre in qualche modo si cercava sempre qualche surrogato, qualcuno che in simile, peculiarissimo modo densificasse il campo fino a farlo deflagrare, qualcuno che facesse male ai sensi non per accumulo di stimoli diversificati, ma per la loro concentrazione portentosa in pochi segni, ognuno di assoluta necessità e intensificato allo stremo.
E non erano quelli più banali, i Wenders e Co., a entusiasmarci. Probabilmente i maggiori epigoni del maestro ferrarese sono stati Edward Yang (che l’ha preceduto nell’Ade di un mese) e Michael Mann: il primo col palese nitore del cultore delle distanze e dello scavo esistenziale, il secondo col genio incorrotto dei sensi al lavoro e la sconfinata curiosità tecno-formale.
Quando tornò Lui, l’originale, emerso da un risonante silenzio, si era presso il centenario del cinema, sembrava che in qualche modo il cerchio si chiudesse. E per il volto di Irène Jacob, per lo stendersi di quei colori sull’anima, passavamo pure sopra alle cazzate di Tonino Guerra, allo sciupio di parole su un’estasi che avremmo voluto muta.
Alla camera ardente, sullo schermo d’occasione, cogliamo una volta ancora i suoi occhi, che scrutano fuori da una macchina una campagna di pioggia e sfumature, e pensiamo che vorremmo guardare, come guardava Antonioni, qualsiasi cosa ci sia lì fuori. Di occhi così ne nasceranno sempre meno. Un grazie, è quello che resta da dire.