CONVERSAZIONE CON IL REGISTA JOAO SALAVIZA
Renée Nader Messora e João Salaviza ritornano per il loro secondo lungometraggio diretto insieme, The Buriti Flower(Un Certain Regard), in Brasile in seno alla comunita degli indigeni Krahô, che aveva gia costituito la materia narrativa del loro The Dead and the Othersnel 2018. Mentre questo film si focalizzava sulla sorte e le decisioni cruciali di un giovane uomo Krahô, nel loro nuovo lavoro lo sguardo dei due cineasti abbraccia un lungo periodo della storia di quest’etnia. Sul filo di una narrazione che si vuole non-lineare, i registi creano un’ode alla memoria di un passato cruento e traumatico, il grande massacro avvenuto negli anni quaranta, che getta la sua lugubre ombra fino al giorno d’oggi in cui, indomito e fiero, il popolo dei Krahô deve continuare a battersi per salvare le sue terre, la sua cultura. i suoi rituali, il suo modo di vivere.
Immergendosi completamente nella vita della comunità i due registi hanno girato, vivendo sul luogo, durante quindici mesi in quattro villaggi della terra indigena dei Krahô con un’empatia e una sensibilità che non gomma la differenza fra chi filma – l’uomo bianco- e chi e filmato ma si propone come un terreno di dialogo e di mediazione. The Buriti flower è un film raro e prezioso come il fiore reale e mitico a cui si ispira.
La conversazione con João Salaviza si è svolta durante il festival di Cannes.
The Burrity Flower è un film militante, politico, antropologico ed una fiction al contempo. Ritengo che tutti questi aspetti siano ugualmente importanti. Sei è d’accordo?
Assolutamente, si! La mia partner e co-regista del film, Renée Nader Messora, si è recata sul territorio dei Krahô per la prima volta nel 2010, io invece ho iniziato ad andarci nel 2014 dopo le riprese di Montanha (2015), mentre questo film era in post-produzione. Di fatto, entrambi abbiamo iniziato la nostra carriera nel cinema in un modo tradizionale. Abbiamo frequentato la scuola di cinema e poi abbiamo iniziato a lavorare; Renée era assistente alla regia e io realizzavo dei cortometraggi. Poi ho girato il mio primo lungometraggio a Lisbona in modo classico con un produttore, una troupe di 20 persone e delle riprese che sono durate otto settimane. Ma durante questo periodo ho iniziato a sentire di non potere continuare così; non potevo immaginare che nella mia vita sarei stato felice semplicemente facendo un film dopo in questo modo. Ho pensato che la mia esistenza non poteva limitarsi a questo: sforzarsi di raccogliere i fondi per un nuovo film, poi fare 6 o 7 settimane di riprese dopo le quali ognuno va per la sua strada perché, di fatto, non si ha nemmeno il tempo di farsi veramente dei nuovi amici in questo lasso di tempo.
Per questo motivo entrambi abbiamo iniziato a trascorrere più tempo con la troupe. All’inizio tutto questo non era un progetto artistico, era solo il risultato del desiderio di trascorrere del tempo di qualità con la nostra troupe, creando dei legami più consistenti con loro. Dopo alcuni anni, abbiamo completato The dead and the others (2018), il nostro primo film nella terra indigena dei Krahô in Brasile. Abbiamo iniziato a rimanere sempre più a lungo nel villaggio. Per The dead and the others abbiamo girato sul posto durante nove mesi, il tempo di una gravidanza a ben pensarci, questa volta siamo rimasti lì per 15 mesi. Negli ultimi anni abbiamo trascorso la maggior parte del nostro tempo nel villaggio. Ora abbiamo una figlia, che vive lì da quando aveva sei mesi. Certo, a volte andiamo a San Paolo o a Lisbona. Ma credo che nel corso di un anno abbiamo trascorso lì la metà del nostro tempo e questo film è probabilmente la prova tangibile del nostro legame con questo luogo e con i suoi abitanti.
Adesso The Buriti flower e pronto e inizia, per cosi dire, il suo viaggio nel mondo. Oltre alla realizzazione di questo film, ci sono molte altre cose che sono sorte perché abbiamo trascorso così tanto tempo vivendo lì. Abbiamo degli ormai amici sul posto e, in un certo senso, è come girare con degli amici. Ovviamente, fare un film in questo contesto – e credo che gli antropologi condividano questo punto di vista – comporta sempre un grado più o meno considerevole di distanza e di alterità. Il film è molte cose in una, come hai detto prima, ed è sicuramente un film altamente politico, ma è anche una rievocazione di ciò che è accaduto lì in passato e vuole offrire una riflessione sulla mitologia indigena evocando l’oralità di questa tradizione.
Come hai lavorato alla sceneggiatura in queste condizioni così particolari?
Per questo film avevamo una sceneggiatura che non era scritta, come si usa fare, su carta. Abbiamo costruito la sceneggiatura attraverso le nostre conversazioni con i Krahô nel corso del tempo. Abbiamo girato alcuni segmenti che assomigliano ad un film dell’epoca del muto, ad un film degli anni ’30. E poi ancora, in altri momenti, ci colleghiamo con il 2023 e con le giovani ragazze indigene che guardano i cellulari e i video di Sônia Guajajara, che era ancora un’attivista indigena quando abbiamo girato ma che nel frattempo è diventata ministro delle popolazioni indigeni in Brasile.
Spero che la situazione stia migliorando un po’ in Brasile adesso….
Beh, Bolsonaro non c’è più, ma credimi, il “bolsonarismo” c’è ancora!
Nel vostro film percepiamo il fluire del passato, dei ricordi, dei rituali, di tutto questo ricchissimo patrimonio culturale nella vita attuale del popolo Krahô. Il substrato mitico delle loro tradizioni si fonde naturalmente con il loro modo di vivere attuale e con gli elementi di finzione. Tutti questi aspetti si intersecano in modo molto organico in The Buriti flower. Come avete lavorato al montaggio per ottenere questo risultato?
Abbiamo fatto il montaggio durante le riprese. Abbiamo pensato al montaggio fin dall’inizio perché, come ho ti detto prima, abbiamo iniziato a girare senza una vera e propria sceneggiatura. Sapevamo, ovviamente, che volevamo fare un film in questi territori indigeni e che il rapporto tra la terra e i Krahô sarebbe stato al centro del nostro progetto. Volevamo esplorare tempi diversi per tracciare una sorta di genealogia della violenza ma, soprattutto, la storia della resistenza di questo popolo.
Non descrivete mai i Krahô come delle vittime, questo è un aspetto fondamentale nel vostro film: sono orgogliosi, sono forti e resistono.
Certo! Il grande slogan del movimento indigeno attualmente è questo: “Il futuro è indigeno e il futuro è adesso!”. Sembra una bella frase da mettere su una maglietta, ma in realtà è un’affermazione molto profonda, quello che stanno dicendo è che non siamo i discendenti di una vecchia cultura cristallizzata nel passato. In un primo tempo gli spagnoli volevano ucciderci poi, nel XVIII secolo, i francesi con Michel de Montagne e Jean Jacques Rousseau hanno scoperto la “nostra bellezza”, per così dire. Ma non siamo nemmeno questi “buoni selvaggi” che voi occidentali volevate che fossimo. Abbiamo una visione molto sofisticata del cosmo e un modo complesso di occupare questa terra. Quello che stiamo mostrando al mondo è qualcosa di molto semplice, ma voi, i “bianchi”, non lo capite. È una possibilità diversa di futuro. I Krahô sono già nel futuro! Di fatto erano già nel futuro 3 o 4 secoli fa, ma è solo ora che noi occidentali capiamo che erano già nel futuro. Quindi per noi l’enorme responsabilità di tradurre questo mondo cosi sensibile e complesso, non aveva semplicemente a che fare con una narrazione, ma coinvolgeva anche le immagini e i suoni sul posto, così come la foresta, i loro corpi e le loro voci. La difficoltà per noi era quella di riuscire a tradurre questa realtà evitando di riprodurre idee e schemi stereotipati su di loro.
Sentiamo molto spesso dire “cupe”, la parola che i Krahô usano per definire i bianchi. Trovo sia stata una scelta molto interessante quella di non tradurre questa parola nei sottotitoli. All’inizio era molto misteriosa, poi, piano piano, guardando il film, capiamo chi viene chiamato “cupe”. Quello che ci viene mostrato è la loro prospettiva di come ci percepiscono. Anche loro devono confrontarsi con la nostra “diversità”. In fin dei conti siamo noi ad essere ‘diversi’ sul loro territorio.
Grazie mille per quest’osservazione! Non so se ci sono altri film a Cannes, a parte quello di Wang Bing, in cui qualcuno ha girato sul posto per 15 mesi. Nel nostro caso, devo dire che durante questi 15 mesi, per la maggior parte del tempo non abbiamo girato, ma abbiamo semplicemente trascorso del tempo con la gente del posto. La nostra troupe era molto piccola ed era composta da me, da Renée, che è anche la mia compagna, dalla nostra figlia, che aveva tre anni e mezzo all’inizio delle riprese e cinque alla fine, dalla sorella di Renée, che ci ha aiutato con la produzione e altri due amici che venivano di tanto in tanto, uno di loro era Diogo, che ci ha aiutato con il suono e Leo. Ma non eravamo mai più di 3 o 4, cioè persone non indigene sul sito dei Krahô. The buriti flower è un microfilm, molto più piccolo di alcuni documentari realizzati in Amazzonia con 20 persone. Il film stesso stava producendo una realtà e questa realtà è stata prodotta collettivamente perché abbiamo dovuto discutere continuamente per organizzare le cose. Chi andrà a caccia nella foresta per portare il cibo? Così il film cresceva giorno per giorno.
Sui titoli di coda del film tutti i Krahô sono menzionati come co-autori e questo mi sembra molto significativo.
In effetti abbiamo costruito la storia insieme anche se non l’abbiamo mai scritta su carta. Se ci fosse stata una sceneggiatura, sarebbe stata la trascrizione di migliaia di ore di conversazioni con loro. Per me è ormai difficile immaginare di fare un film in modo diverso da questo. Un film può anche essere infatti un luogo di mediazione. Mi spiego meglio: Io mi porto dietro una tradizione estetica che deriva da ciò che sono, da dove sono nato e cresciuto e ho un mio punto di vista particolare sul come fare cinema, ma anche loro avevano le loro aspettative sul film, e a volte volevano filmare cose che io non volevo filmare. A volte sono stato io a proporre delle cose che loro hanno rifiutano. Per esempio, per la ricostruzione della scena del massacro i Krahô avrebbero voluto che io filmassi in modo realista ciò che è accaduto, ma io mi sono rifiutato di farlo perché non volevo mostrare lo sterminio brutale di bambini e di donne incinte.
Nel suo film c’e anche del materiale d’archivio. Da dove proviene?
Si tratta di immagini d’archivio che abbiamo trovato quasi per miracolo e che non erano mai state viste prima. Si tratta di un filmato del 1929 fatto da un antropologo che aveva viaggiato da quelle parti. Abbiamo scoperto che suo figlio, che ha 85 anni, aveva ancora una pellicola in casa. Gli abbiamo chiesto se potevamo vederla e abbiamo scoperto le immagini del capo storico dei Krahô, Balbino, che è stato ucciso nel massacro. Abbiamo proiettato questo archivio alla comunità e loro hanno detto: “Guardate! Balbino assomiglia al tizio che fa Balbino nella scena del massacro nel film!”. In effetti è suo nipote. Per noi è stato molto interessante osservare come i hanno reagito a queste immagini e come sono riusciti a tracciare la loro genealogia. Spero che questo film possa contribuire ad un più ampio riconoscimento del loro inestimabile patrimonio culturale.